La Grigia

Ai confini della realtà e ritorno verso una verità difficile da accettare e ancora di più da spiegare. Terzo classificato nella Novantanovesima Edizione di Minuti Contati con Franco Forte come guest star, un racconto di Jacopo Berti.

 
La Grigia
 
Avevano percorso migliaia di anni luce, quelli stronzi, per arrivare, una sera di qualche mese prima, sopra casa sua, levitando furtivi oltre i lampioni e i fanali della statale, glissando sopra le siepi di biancospino, con il cielo e il suolo tempestati di candide perle. L’avevano sorpresa con un tè caldo, coi compiti da correggere e con Enya nel lettore mp3 scassato. Mentre i vetri del gazebo vibravano, gracchiando Sail away in combutta con le casse del computer, eccoli arrivare da Deneb, o da Canis IV, i maledetti, strombazzando peti come in Incontri ravvicinati, con le loro luci pacchiane da scenografie in cartone. Tutto, poi, aveva cominciato a girare, e Amelia era stata catturata in un vortice senza tempo, mentre il mondo attorno a lei sembrava scorrere e accorrere freneticamente.
Dell’interno dell’astronave ricordava poco, ma era sicura d’esserci stata: ne rammentava le luci e l’aria da cinema multisala, i loro volti inespressivi, i loro occhi pieni di entropia. Volevano contagiarla, renderla simile a loro, un ibrido umano-alieno. Per questo le avevano messo sottopelle l’impianto CN-CR, che l’aveva fatta sua, prima del previsto. Ed ora eccola lì, la Grigia, davanti allo specchio: con il volto scavato, il cranio oblungo e glabro, gli occhi protrusi, come gli alieni di X-files.
«C’è un senso in tutto questo?» si domandava Amelia. Aveva guardato troppe serie di fantascienza, e se ne rendeva conto. Ma a vedersi così non poteva che immaginarsi un’Osservatrice. Un’incaricata speciale – qualche donna doveva pur esserci – con la missione di sorvegliare il mondo e agire sulle piccole cose, per ritardare la catastrofe inevitabile e imminente. Dopotutto, ora aveva imparato a guardare fuori di sé con distacco, necessario ad agire per il meglio, senza farsi prendere dal panico.
Ogni sera, quando l’impianto le dava un attimo di respiro, andava alla mensa della Caritas, a servire i pasti ai senzatetto e agli immigrati. Le avevano dato un cappello da cuoca, ma lei – qualcuno le diede anche della cinica – preferiva non indossarlo, sperando che la sua condizione potesse sollevare gli altri dalla loro.
In classe, invece, non aveva ancora messo piede. «Buongiorno», «Può rispiegare» e «Mi giustifico» erano il novanta percento delle interazioni che gli studenti si concedevano con un’insegnante di matematica e fisica. Cosa avrebbe detto loro, dopo mesi di assenza? – si domandava mentre entrava in ascensore e tutti i colleghi si scostavano come vicino a una cosa fragile. Non avrebbe certo accennato al rapimento alieno, la storia che si raccontava un po’ per scherzo. Come avrebbero reagito i ragazzi a questa visita? Le prime classi, ancora bambini, l’avrebbero guardata con sorpresa, nostalgia, forse affetto. Ma in quarta e in quinta erano quasi adulti – meditava, mentre bussava alla porta della VB – conoscevano e sapevano esibire quel misto di commiserazione, pietà e vicinanza che Amelia non poteva sopportare e che chiamava “faccia da cancro”.