
Una missione di salvataggio tra viscere di orchi e amore materno. Quarto classificato nella IGORANZA EROICA SPECIAL EDITION, un racconto di Diego Martelli.
La porta saltò via dai cardini stridendo come una cassa da morto scoperchiata, surclassando per un istante le grida dei mercanti di schiavi e portando con sé sul pavimento il più coraggioso di loro, che non si rialzò.
«DOV’E’ LA DONNA?» gracchiai sotto l’elmo, regalando le nocche del guanto ferrato a Grugno Sghembo per sottolineare la perentorietà della mia richiesta. Per un lungo momento, silenzio, respiri trattenuti, scambi di sguardi incerti. Si sentiva la mia scure gocciolare con urgenza la migliore delle minacce.
«…noi non sapevamo, Vostra Signoria… se avessimo saputo che… che quella c’aveva un amico… un parente….» si giustificò Quello Untuoso: magro, pallido, le mani tenute ben in vista. Grugno prese i convenevoli come un permesso per frignare. Gli allungai, distrattamente, un calcio nelle palle, e si accasciò nel totale disinteresse dei suoi compari.
«E’ al magafffino.» sbottò sibilando lo Sporco dal fondo della sala, daga e bottiglia rotta ad arte nelle grinfie callose, gli unti baffi indignati. «Un ffacco di rogne per pochi foldi, lo dicevo, io! La prendono ora, che i Demoni fe la portino!» Sputò per terra, più per abitudine che per teatro: poi le labbra si incresparono a rivelare un incubo di vuoti e pieni, come una scacchiera. «E portano via anche a te, mi fa! Al nord una buona lama la pagano feffanta ducati…»
Fuggii nel corridoio e accolsi con blasfemia il quadrello che mi si era infilato nel braccio armato. Vidi lo sbirro doganale gettare la balestra ed estrarre la spada, seguito da due brutti gendarmi. «Dài, stronzo, dimmi che in realtà sei mancino!» disse allegro, un attimo prima che la scure lasciasse la mia mano per solcare l’aria ed il suo sorriso. Le grida di tutti i presenti si mischiarono all’infrangersi della finestra a me più vicina.
Rotolai nella melma scatenando il fuggi fuggi dei maiali. Barcollando abbattei il recinto del porcile. Il magazzino era proprio davanti al molo. Corsi, mentre alle mie spalle la canea dei trafficanti trovava coraggio nel numero. Passi di corsa, insulti, grugniti striduli e scocciati, altri e più sfortunati quadrelli.
Il portone non resistette un secondo alla spalla buona. Dentro, salami appesi, letame, odore di cavallo, d’urina e di paura. Una squallida lanterna, ad illuminare file di catene, e due occhi furenti.
«…CE NE HAI MESSO AD ARRIVARE!» sbottò l’incatenata tirandosi in piedi, sferragliando con aria di rimprovero.
«MUOVITI!» risposi, lanciandole le chiavi. Piroettai grottescamente, mettendo mano al quadrello che ancora mi decorava il braccio. Me ne liberai insieme a un fiume di oscenità.
«Ma insomma!» protestò quella, correndo subito dentro al buio d’uno stallo. Sul portone erano arrivati i miei inseguitori. Sguainai la spada… e la passai nella mano sinistra. Fecero una smorfia disgustata, poi li ebbi addosso.
Grugno, poi uno sbirro, poi Untuoso. Una cosa rapida, cattiva. Gocciolavo sangue e sudore, tutto mio.
Restavano Sporco e un altro sbirro. Si allargarono a mettermi in mezzo. Sporco aveva gettato il coccio, e trovato uno scudo. «Pfah!» cominciò, gongolante. «Te l’ho detto che finiva cofì, eh? Molla la spada. Mica vorrai fare l’eroe per… chi? La tua puttana? …tua madre?» e ridacchiò, sgradevole, di nuovo mostrando il suo sorriso a domino.
«Sono io mia madre!» dissi con distacco, cercando di tenerli d’occhio tutti e due.
«…Eh?» domandò, aggrottando le sopracciglia, e poi trasalendo per l’improvviso bagliore alle mie spalle. Il doganiere aveva cacciato un improvviso, alto grido, e vampe di fuoco gli erano fuoriuscite da tutti gli orifizi. Non aspettai che Sporco rimettesse a fuoco: mi levai l’elmo e glielo lanciai in faccia. Lui lo deviò con lo scudo, ed accolse con le viscere due spanne abbondanti del mio ferro. Una lunga treccia di capelli grigi, finalmente liberi, si srotolò sulle mie spalle. Mi raddrizzai dolorante.
La donna rimise a posto la bacchetta. «…lo so, lo so. Me l’avevi detto. Oh, certo che me l’avevi detto. L’uomo sbagliato, l’idea sbagliata. Come sempre! Devi sempre avere ragione, tu!» disse stizzita, evitando di avvicinarsi a me, frugando un morto con dita agili.
La scrutai con un misto di orgoglio e di disgusto. «Jiessicah…» cominciai, con tono di ammonizione.
Ella mi guizzò davanti, fronteggiandomi, velenosa. «…ma potrò fare delle scelte, o no? E’ la mia vita, o no? Tu e papà… con questo nome! …e con la scuola di magia… e i consigli, e la campagna con gli orchi…»
Cercai i suoi occhi. Marroni, torbidi, come i miei. Si zittì subito. Sorrisi con sufficienza, mentre il suo cipiglio si addomesticava alla vista delle rughe e delle cicatrici che conosceva fin dalla culla. «…Jiessicah…» ripetei, più zuccherina.
Sostenne lo sguardo ancora un secondo, poi lo abbassò sulla mia spalla. Strinse le labbra. Sospirò. «…va bene, va bene. Andiamo a casa…» Una pausa, carica di aspettativa reciproca. Un altro suo sospiro, esausto e sollevato insieme.
«…grazie, mamma.»