
Nemici immaginari e reali in questo racconti di Laura Silvestri, secondo classificato nella Dragon Fest Live at Home Edition del 2017!
La notte in cui il re sognò la marea nera, si risvegliò madido e scosso. La sua sposa, distesa accanto a lui fra trine e sete, sentì il respiro del consorte farsi breve, e dischiuse gli occhi.
«Non v’è quiete, per un sovrano, nemmeno nell’ora del riposo?», lei domandò, carezzandogli le tempie già imbiancate. «Cosa angustia il mio signore?»
«Non so spiegarlo», il re sussurrò, «ma la strega di certo potrà farlo».
Una ruga solcò la fronte della regina, che chiuse gli occhi e non s’azzardò a contrariarlo.
All’alba in cui il re s’addentrò nella valle del Popolo Libero, oltre le montagne, l’accompagnarono cento guerrieri dalle corazze istoriate.
«Ho sognato onde di malaugurio», il Re confessò alla strega, seduto su un tronco vetusto e annerito. «Cupi e ribollenti come pece, i flutti lambivano la terra e lasciavano scie di sangue. Il loro sciabordare portava grida di uomini e pianti di madri.»
La vecchia schioccò la lingua contro i denti marci e sputò nella ciotola colma di sangue e viscere d’uccello. Un’ombra calò sugli occhi mezzi ciechi, nascosti dalla maschera di corteccia. «Hai veduto il futuro, Re degli uomini di metallo», la strega gracchiò. «Gli Dei t’hanno voluto mettere in guardia. Il nemico verrà dal mare, infido e nero. Se soltanto toccherà la tua terra, il regno che comandi sarà perduto. Senza speranza alcuna».
Il mattino in cui il re fece ritorno, narrò a suo figlio della profezia.
Il principe rise, scuotendo il capo biondo. «Mio signore, padre mio, non dovreste credere ai deliri dei selvaggi», lo ammonì con bonaria fierezza. «Fosse per loro, ci abbiglieremmo ancora di pelli, e tremeremmo di fronte al fulmine e al vulcano».
Ma il re era inquieto, e ombre scure s’agitavano in fondo al suo sguardo.
«E sia, padre mio», il giovane capitolò, posando una mano sul cuore. «Farò quel che desiderate. Salperò con un esercito su grandi navi, raggiungerò le terre a sud del mare, e sconfiggerò i vostri nemici prima che essi possano posare piede sulle nostre rive amate».
Il re abbracciò suo figlio, il petto gonfio d’orgoglio. Non diede peso alle lacrime della regina.
Il pomeriggio in cui il Principe fece ritorno, il sole che tramontava era rosso come una gemma della corona. Il Delfino scese dalla nave fiero come uno degli Dei antichi, provato dal lungo viaggio, il volto mutato in quello d’un uomo. Portava con sé casse d’oro, spezie e legni pregiati.
«Cos’hai trovato oltre il mare?», il Re gli domandò.
«Non avreste dovuto dar retta a quella strega», il figlio rispose. «Oltre il mare ci sono popoli come il nostro, che conoscono la forma della terra e i ritmi delle stagioni. Hanno re savi, scienziati, medici e astronomi, e vi porgono i loro omaggi».
«Non sono dunque, queste che vedo, spoglie di guerra?»
«No di certo, padre mio. Sono doni. Mi hanno ricevuto con onore, e avrei fatto ritorno con una sposa, o un protetto, se soltanto non avessi temuto che voi m’avreste accusato di non aver avuto a mente quella sciocca profezia».
«Nessun conflitto, quindi, all’orizzonte?»
«Nessuno, mio signore. Il Regno è salvo».
La sera della grande celebrazione per il ritorno del Principe, ogni cosa fu vicina alla perfezione. Tutti i nobili furono invitati, centinaia di servi ingaggiati dalla città, i popolani accorsero a frotte dalle campagne per osservare il fasto dei festeggiamenti. I lumi rischiararono le vie e le piazze, fiori furono sparsi sul lastricato che conduceva al palazzo. Il Re, infine, non badò a spese per allontanare da sé il gelo che gli serrava il petto, una cupa sensazione di sconfitta che ancora non sapeva giustificare. «Mi son fatto vecchio», borbottò davanti allo specchio mentre infilava la veste di gala. «Forse dovrei lasciare il posto a mio figlio, godermi gli ultimi anni di questa vita d’affanni». Quando la regina accettò il suo braccio, mentre i musici suonavano la marcia del Regno, il Re assaporò un breve istante di pace.
La notte dei grandi festeggiamenti, il Principe cadde in terra mentre danzava con una leggiadra contessa. Gli occhi s’erano fatti rossi di sangue, lacrimanti, la pelle era satura d’un sudore amaro. «Non è nulla», il re lo sentì dire, prima che i servi lo portassero nelle sue stanze. «Forse una febbre del paese al di là del mare. Le genti del sud l’hanno da secoli. Dicono che non sia gran cosa, che svanisca dopo un periodo di riposo». Ma la febbre non passò. Volò di fiato in fiato, respiro dopo respiro, spezzando vite fra tossi biliose e nere. S’arrestò soltanto al confine con le alte montagne che circondavano la valle.
«Il Popolo Libero venera il fulmine e il vulcano», il principe mormorò sul suo letto di morte, «e, quel che è peggio, ci teme. Teme le nostre armature di metallo, la polvere da sparo, e l’aritmetica che dà un ordine al creato. Davvero, padre mio, non avresti dovuto dar retta a quella strega».
E quello fu anche l’ultimo pensiero del re, qualche ora prima che la marea nera giungesse a reclamarlo.