Panchina con belvedere

Non sedetevi su quella panchina… Quinto classificato nella Quinta Edizione della Quinta Era di Minuti Contati con Emanuele Manco nelle vesti di guest star, un racconto di Ambra Stancampiano.

 
La ragazza sta seduta sulla panchina, di spalle.
Non avevo mai notato quel piccolo scorcio di belvedere con panchina, anche se mi do spesso appuntamento con gli altri in questa piazzetta; anzi, potrei giurare che fino a ieri lì c’era il palazzo diroccato che ora sembra essersi spostato di un paio di metri sulla destra.
La ragazza si gira nella mia direzione, forse si sente osservata. In effetti è da quando sono arrivato che fisso lo scorcio, devo essere stato indiscreto. Accenno un segno di scuse con la mano, distolgo gli occhi.
Il mio sguardo vaga per i palazzi bassi che costeggiano la piazzetta: sono in una via qualsiasi di una qualsiasi città di provincia, e tutto è assolutamente normale.
Tutto, tranne lo scorcio spuntato dal nulla tra ieri e oggi. Mi arrischio a dargli un’altra sbirciatina e mi accorgo che la ragazza si sta sbracciando animatamente nella mia direzione; mi volto, ma la piazza è deserta. Sembra avercela proprio con me.
Mi avvicino, e a ogni passo che faccio lei sembra sempre più contenta. Quando le arrivo accanto non si alza, ma mi porge la mano con un gran sorriso. Mi presento.
«Ciao Piero! Perchè non siedi qui accanto a me?»
A guardarla bene, non è poi tanto ragazza. Indossa degli abiti un po’ antiquati, simili a quelli nelle foto di mia madre di vent’anni fa, e ha qualche filo grigio tra i capelli. Mi siedo comunque accanto a lei.
Appena mi poggio sulla panchina, lei si alza quasi saltellando, come se le fosse scattata una molla sotto il sedere, e strilla:
«Grazie! Erano più di 10 anni che nessuno passava di qui. Divertiti, adesso!»
Scappa via di gran fretta.
Io non sono sicuro di aver ben capito quel che è successo, provo a correrle dietro ma non riesco più ad alzarmi.
È come se le mie gambe si fossero scollegate dal resto del corpo, e contemporaneamente il mio sedere sembra essersi fuso col ferro della panchina.
«Ma che cazz! Aiuto!»
Che scherzo di merda.
Dal belvedere posso vedere i miei amici arrivare in lontananza, li sento parcheggiare i motorini a pochi metri dalle mie spalle.
«Ragazzi! Ehi ragazzi! Aiuto!»
I ragazzi non sembrano sentirmi. Si guardano intorno, in mia attesa.
«Ragazzi! Aiutatemi! Sono qui!»
Niente. Del resto, neanch’io sentivo la ragazza. Provo col cellulare, ma appena tocco lo schermo diventa caldissimo e lo lancio via, cade giù dal belvedere.
«Fanculo!»
Il cellulare rimbalza su dal belvedere e mi cade in testa.
«Ahi! Maledizione!»
«Piero? Ma sei lì?»
Uno dei ragazzi mi ha sentito, sta venendo nella mia direzione! Lo guardo sempre più felice mentre mi viene incontro, ma inorridisco quando lo vedo – e lo sento – passare attraverso la panchina e fissare il portone del palazzo diroccato.
Qualcosa mi si apre nello stomaco mentre raccogliendo il cellulare vedo che sono scomparse la data e l’ora.