Sogni carsici

Poteri che si rivelano nella tragedia. Settimo classificato nella Terza Edizione della Quinta Era con Francesco Troccoli nelle vesti di guest star, un racconto di Erika Adale.

 
Anch’io sognavo come tutti, un tempo. E non vivevo affatto.
Mi svegliavo con la sensazione confusa di essere caduto, l’ansia di aver rivissuto l’embrione di un esame, l’ansimare di un amplesso sfiorato. A volte era un’immagine sgranata ad accompagnarmi mentre pedalavo verso il lavoro; poi bastava chiudere il lucchetto della bici e aprire la porta dell’ufficio perché si dissolvesse come inutile vapore.
Ero un impiegato coscienzioso. Non portavo sogni con me, ogni tentacolo dei miei pensieri era votato alla precisione di un lavoro ben fatto. Affidabile, senza genio. Senza passione.
Fino a quella mattina di febbraio.
Pedalavo nella nebbia violacea dell’alba, i banchi che si aprivano come quinte al mio passaggio. Da una strada laterale vidi un lampo di luce accendere il mattino e poi il rumore dei copertoni che slittavano sull’asfalto viscido.
Nel buio che seguì, capitò per la prima volta.
Ero un chirurgo, chino sulla schiena spezzata di un poveretto. Cercavo di concentrarmi sulle vertebre frantumate che vedevo, ma il mio pensiero correva a mia moglie, che a casa riempiva una valigia per andarsene da casa. Bestemmiai, insultai un’infermiera. Io, che non alzo mai la voce.
Quando mi svegliai, accanto al mio letto vi era un medico di mezza età che giocherellava nervoso con la fede nuziale appesa a una catenina.
«Ho fatto quello che potevo. L’auto le ha spezzato la schiena in più punti. Il midollo spinale è danneggiato.»
Cercai di sollevarmi, invano. Le gambe erano ferme, le braccia due tronchi che riuscivano a flettersi appena.
«Resterò così?» chiesi.
Conoscevo la risposta.
«Vada a casa da sua moglie, magari riesce a fermarla» gli dissi e chiusi gli occhi, perdendomi la sua espressione sbalordita.
Quella notte sognai di essere davanti allo specchio, un volto di donna che si struccava gli occhi. Non l’ho visto perché c’era nebbia, non perché ero al telefono. So fare mille cose insieme, figuriamoci guidare e postare una foto su Facebook. E poi non lo scopriranno mai.
 
Non arrivo più al lavoro pedalando sulla mia bici, ma trasportato da una sedia a rotelle elettrica. Le mie gambe sono vuote, ogni giorno più spolpate. Le braccia si muovono goffe, imprecise.
Dicono lavori anche meglio di un tempo, che precorra le idee dei capi; il mio acume sbalordisce, la mia empatia affascina: sto facendo finalmente carriera, piaccio alle colleghe.
Lodano la forza straordinaria con cui non mi lascio abbattere.
Non conoscono il mondo segreto che ho scoperto, gli infiniti cammini nascosti dal sonno. Ogni sera mi infiltro sotto la crosta della realtà, scendo nel mondo ipogeo dei sogni e riemergo surgivo nelle vite degli altri, degli uomini d’azione che invidiavo, di donne che disperavo di sedurre. Il cuore dell’umanità è l’orizzonte delle mie notti.

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