
Ai tempi della ghigliottina, di donatori ce ne sarebbero stati molti, oggi come oggi un po’ meno, perlomeno nei canali ufficiali. E nel frattempo c’è la lista d’attesa.
«Le faccio qualche domanda, professore. Quando è stanco chiudiamo l’intervista, d’accordo?»
«Si stancherà prima lei. Ha più massa muscolare, produce più acido lattico.»
Paolo finse di cercare una penna. Quel volto lo metteva a disagio.
«Lei era molto ammalato…»
«Ora invece sto bene, vero?»
I sensori posti sulle guance e nella lingua trasmettevano le parole al sintetizzatore. La risposta risuonò ironica nonostante il timbro da navigatore satellitare.
«Non volevo dire questo.»
«La scienza deve andare avanti, giusto? Le sconfitte di oggi saranno vittorie domani.»
«La sua anima vive.»
«Siamo anima e non corpo? Mi risparmi la filosofia da posta del cuore, la prego.»
«Anche Stephen Hawkins è immobilizzato.»
Paolo sobbalzò. Non aveva mai sentito un navigatore imprecare.
«Crede sia la stessa cosa?»
«Mi racconti lei com’è. Dall’inizio.»
«Mi diagnosticarono un carcinoma intestinale. Le metastasi già mi divoravano fegato e polmoni. Mi resi disponibile per qualunque cura sperimentale.»
«Conosceva il professor Bartelli.»
«Era un vecchio amico. Un chirurgo straordinario. Fu lui a parlarmi del trapianto. Dapprima parlò solo di fegato e polmoni. Poi si accorse di alcune erosioni sulle vertebre. Non bastava cambiare un paio di pezzi, dovevo sostituire tutto. Un tentativo estremo e geniale. Credevo di non avere nulla da perdere, che la mia mente fosse quanto possedessi di più prezioso.»
«E poi?»
«Trovarono un donatore, un ragazzo vittima di un trauma cranico, dichiarato cerebralmente morto. Avevamo la medesima corporatura, un quadro immunitario compatibile. Mi addormentarono e mi posero in circolazione extracorporea: una macchina pompava sangue ossigenato nelle mie carotidi e raccoglieva quello refluo dalle giugulari. A quel punto mi decapitarono.»
Paolo deglutì e lasciò che il professore continuasse.
«Decapitarono anche il donatore ma, durante la sezione, l’attività elettrica del cuore impazzì. Nulla di inatteso, erano già pronte le piastre per la defibrillazione. Caricarono a 150 Joule, schiacciarono il tasto e si udì uno schiocco. Dal defibrillatore si sollevò un filo di fumo. Corsero nella sala a fianco, ne presero un altro e lo collegarono alle piastre ancora adese al petto del poveretto. Un altro schiocco, ancora fumo. Nel frattempo, il cuore si era fermato; l’anestesista praticava il massaggio cardiaco, l’assistente di Bartelli correva alla ricerca di un altro defibrillatore. Mi hanno raccontato che ne mandarono in cortocircuito otto, quella mattina, senza erogare la scarica. Erano le piastre a essere difettose.»
«Quando si risvegliò?»
«Alcune settimane più tardi. Non sapevano come comportarsi con quanto rimaneva di me.»
Paolo fissò la testa appoggiata sul cuscino come un trofeo, i tubi che pompavano sangue nel collo mozzato.
«Non ci sono stati altri donatori?»
«Certo. Ma l’unico chirurgo in grado di eseguire l’intervento era Bartelli. Che, come certo sa, ebbe un infarto quando si accorse che il cuore del donatore non ripartiva. E ormai non era rimasto nessun defibrillatore funzionante per rianimarlo.»
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