Venerdì 12

La strage di Piazza Fontana raccontata da Luca Pagnini nel racconto vincitore della DEMO Edition.

 
Nota dell’autore: Pietro è un nome di fantasia, come lo sono gli altri. Questo racconto è dedicato a chi è sopravvissuto e a chi quel giorno se n’è andato per sempre.
 
Il corteo funebre non ci sarebbe stato. Motivi di sicurezza. E poi quattordici bare erano troppe da far sfilare con dietro tutta quella gente. La gente, il popolo, avrebbe acquietato la propria ansia, dimostrato la propria solidarietà, dissetato la propria curiosità solo assistendo alle esequie. Magari dall’esterno. Ventimila in Duomo, trecentomila in piazza e nelle vie adiacenti, così scriveranno le cronache. Migliaia di cuori e respiri, uniti in un unico, impressionante silenzio.
 
Prima di entrare, Pietro controllò ancora una volta le cifre che aveva scritto su un foglio a quadretti strappato dal quaderno di suo figlio Paolo. Paolo era il suo secondogenito e faceva la prima media. Gli piacevano i numeri a Paolo, se continuava così dopo le medie lo avrebbero iscritto a ragioneria. Intanto domenica lo avrebbe portato a San Siro a vedere l’Inter giocare contro il Bari, era giunto il momento di rispettare la promessa fatta dopo il buon esito dell’esame di quinta.
Come d’abitudine, Pietro aveva parcheggiato la 600 a Porta Ticinese, quindi aveva raggiunto la banca con i mezzi pubblici. Nonostante fossero passate le quattro del pomeriggio, la filiale era ancora aperta perché il venerdì l’orario veniva posticipato per favorire la borsa mercato degli agricoltori.
Appena dentro, Pietro incrociò Carlo, un conoscente di Lodi che trattava la compravendita di bestiame.
«Per caso hai visto Arnaldo?» gli chiese Pietro, dopo i saluti di circostanza.
«Sì, poco fa era seduto al tavolo centrale.»
«Grazie.»
«Scappo che ho il treno, tanto noi ci rivediamo al matrimonio di tuo cugino, no?»
«Certo, non me lo perderei nemmeno per un milione.»
Mentre Carlo usciva quasi di corsa, Pietro pensò che, in realtà, al matrimonio di suo cugino Alfredo non ci sarebbe voluto andare. Non tanto per gli sposi, che gli stavano comunque antipatici, quanto per l’ambiente. Da quando sua madre aveva litigato per la divisione del podere con suo fratello, ovvero il padre di Alfredo, ogni riunione conviviale, comprese le feste comandate, rischiava di diventare, e spesso lo diventava, occasione di scontro. Comunque adesso aveva altro a cui pensare, doveva concludere l’affare con Arnaldo. Scansando un anziano claudicante, allungò lo sguardo verso il tavolo al centro del salone e lo vide.
 
A mezzogiorno, quando i feretri iniziarono a uscire trasportati sulle spalle dai dipendenti comunali, il cielo si oscurò. Le autorità se n’erano già andate, loro avevano fretta e molte altre cose da fare, una di queste era trovare i responsabili, un’altra impedire che tutto ciò accadesse di nuovo. Forse.
Un lato della piazza era occupato da migliaia di tute blu, sembrava che tutti gli operai dell’hinterland fossero lì. Uno di quelli che grazie alle proprie conoscenze era riuscito a entrare in cattedrale, una volta riemerso sul sagrato si strinse nel suo bel paltò di cashmere e, guardando la macchia azzurra, si chiese cosa ci facessero lì tutti quei comunisti.
 
«Allora siamo d’accordo?» chiese Pietro, asciugandosi la fronte con il fazzoletto che gli aveva regalato sua moglie per il loro primo anniversario.
«D’accordo», gli fece eco Arnaldo allungando la mano destra.
Pietro la strinse convinto. Aveva concluso davvero un buon affare.
«Bene, vado a prendere i moduli per il versamento.»
«Lascia stare», lo fermò Arnaldo, «vado io, tanto devo versare anche un assegno del Beppe.»
«Ah! Finalmente ti ha pagato, bravo, hai fatto bene a tenere duro», constatò sorridendo Pietro.
«Con me non si scappa, lo sai», rispose l’altro mentre si avviava verso uno degli sportelli.
Sedendosi al tavolo ottagonale, Pietro pensò che finalmente avrebbe potuto cambiare la macchina. Se sua moglie si fosse convinta avrebbe preso una Giulietta usata – ce n’erano ancora del ‘63 in ottime condizioni e a un ottimo prezzo, altrimenti avrebbe optato per una 1100.
Alzando lo sguardo Pietro vide che il grande orologio della sala segnava le 16 e 37. In quell’istante una ragazza, avrà avuto sì e no 20 anni, gli chiese qualcosa che, nella confusione della folla, Pietro non capì.
«Scusi?»
«Ho detto, non sente anche lei come odore di bruciato?»
«In effetti…»
 
La folla tentò di accodarsi dietro al corteo, ma gli agenti di servizio lo impedirono.
Qualcuno, dalla prima fila dietro le transenne, indicando l’ultima bara sussurrò al suo vicino che sembrava vuota, tanto leggero era il passo dei becchini. Da dietro, una voce femminile svelò di aver letto sul Corriere che uno dei morti era stato talmente dilaniato dall’esplosione da essere volatilizzato, «Dicono che non ne hanno ritrovato neanche un pezzo».
Lentamente, senza disordini né contestazioni, la gente defluì.
Donne e uomini, giovani e vecchi, borghesi piccoli e grandi, operai specializzati o meno, professionisti, commercianti, avvocati e magistrati, persino i poliziotti e i carabinieri, tutti, proprio tutti rientrarono a casa pensando che il loro coinvolgimento, in quella brutta storia, sarebbe terminato con quel funerale.
Mai più ci sarebbe stata un’altra strage come quella di piazza Fontana.

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