
Non sai mai la forza del demone della casa che stai per demolire… Settimo classificato nella 114° Edizione di Minuti Contati con Andrea Cavaletto come guest star, un racconto di Emiliano Maramonte.
Ivan giurò a se stesso che quella sarebbe stata l’ultima volta. A cinquantasette anni suonati, non aveva più le forze per affrontare il male.
Il motore del suo Caterpillar 950 del 1979 ruggiva sotto di lui come una belva impaziente assetata di sangue. La casa maledetta sorgeva a una trentina di metri, protetta da un morboso abbraccio di rami e, con ogni probabilità, da linee energetiche di rilevante potenza.
Il sole stava tramontando. Il bosco sprofondava velocemente in un silenzio che gelava il sangue. Dall’alto della cabina Ivan lanciò un’occhiata ai due colleghi: Nikolaj gli fece okay col pollice, Selene gli strizzò l’occhio. Amavano il loro lavoro. Erano sempre i primi a gettarsi nella mischia.
Nikolaj avanzò oltre la ruspa e piantò nel terreno coperto di foglie morte una croce di ossidiana benedetta dal Santo Padre. Selene s’incamminò con le braccia alzate al cielo, in cerca di percezioni ostili.
Ivan aveva un brutto presentimento. Molto brutto. Non era mai successo prima. Aveva appena intravisto diversi baluginii grigiastri dietro le finestre sfondate dell’antico chalet. Forse bolliva in pentola qualcosa di grosso.
Un brivido gelido gli percorse la schiena. Provò l’istinto di rinunciare alla commessa del Conte Ribaldi. Il nobile gli aveva offerto ventimila euro (diecimila in anticipo) per abbattere e bonificare quella costruzione fatiscente appartenuta a un suo antenato. Voleva fare posto a una villa più adatta al suo lignaggio. Doveva stare attento: i bonus che la sorte gli stava concedendo, sarebbero terminati, prima o poi.
«Ivan! Cosa fai?» lo richiamò Nikolaj, col suo accento polacco. «Parti!»
Lui si riscosse e affondò il piede sull’acceleratore. Alzò gli occhi verso la foto di Ilaria, l’amore della sua vita, e puntò dritto alla dimora maledetta. Accese la batteria di fari sul tettuccio. Il crepuscolo ormai stava soccombendo al buio. La sagoma dell’antica costruzione di legno si ammantò di un’improvvisa luminescenza argentea. Ivan sgranò gli occhi. Ebbe la netta visione di volti contorti, occhi maligni, orridi artigli… un’orgia di oscenità ultraterrene. Tirò la leva di sollevamento e la benna si alzò di un metro, pronta a spazzare via le travi di legno dello chalet.
«Fermati!» gli urlò Selene. Faceva gesti disperati con le mani verso la cabina. Ormai era tardi. «Stavolta è troppo forte!» Ma Ivan non l’ascoltò. L’impatto fu tremendo. Fu come se un magnete di potenza inaudita avesse risucchiato in un istante il metallo del Caterpillar, per schiacciarlo. Ivan batté la testa contro il volante. Restò stordito per un paio di minuti. Fu circondato da un bozzolo luminoso in cui nuotavano strane ombre minacciose. Suoni acuti come urla atroci gli ferirono le orecchie. Si coprì la testa con le braccia finché quella violenta sinfonia di morte non cessò. Tremava come una foglia. Dov’erano Nikolaj e Selene? Strappò via rami che assomigliavano a tentacoli protesi verso la sua anima, e scese dalla cabina. La casa era un cumulo di macerie. Nulla si muoveva. Tutto intorno, solo le voci della notte. Nel bagliore dei fari superstiti si materializzarono i due ragazzi. Ivan provò un immenso sollievo. «Siete vivi!» Ma loro non risposero. I loro visi erano stravolti da un ghigno esagerato, innaturale. Cedette all’impulso di lanciarsi in una fuga disperata. Qualcosa gli mise lo sgambetto. Dagli alberi si allungavano braccia guizzanti e oscure. Un ramo gli strinse la caviglia destra. Lottò per liberarsi. Il panico calò sui suoi sensi. Selene e Nikolaj avanzavano verso di lui. Inesorabilmente. E’ il momento di smettere, pensò piangendo, in uno sprazzo di lucidità.
«Ti amo, Ilaria!» urlò.
Lo raggiunsero.