L’antro del Lombardi

Nell’oscurità più profonda in questo racconto di Andrea Partiti, sesto classificato nella 117° Edizione con il collettivo Valery Esperian come guest star.

 
Dicono che l’Antro del Lombardi abbia al suo interno centinaia di camere. Camere e passaggi, corridoi, cunicoli, budelli.
I turisti arrivano su pulmini scoppiettanti. Si fanno foto all’ingresso, scendono le scalette cementate, ammirano le prime sale, toccano le stalattiti con dita unticce.
Noi del borgo siamo gli unici a rispettare la grotta.
Quando i turisti se ne vanno la ripuliamo dal loro passaggio. Noi giovani ci sediamo nella prima camera e srotoliamo la mappa.
A chi tocca scendere, questa settimana?
Non sappiamo chi ha creato la mappa. Viene ricopiata ogni volta che l’umido la minaccia. Neppure i nostri padri o i nostri nonni lo sanno.
Ogni volta uno di noi scende, esce dal cammino tracciato, gira in quel tunnel che nessuno ha mai visitato. Con ogni discesa la mappa si fa più precisa, scende verso il basso come un formicaio.
Non ci sono pozzi o crepacci nell’Antro del Lombardi. Scende in maniera graduale. Risalire è faticoso. Scendendo l’aria diventa umida e pesante. Aria morta la chiamiamo, quella che c’è sul fondo. A fermarsi iniziano le vertigini e la grotta ti reclama. Ma abbiamo imparato a non fermarci mai.
Questa volta tocca a me. L’orgoglio mi impone di accettare la sfida, così prendo la torcia, una manciata di batterie e un carboncino.
Le pareti sono coperte di nomi e date scritti col carboncino. Ogni volta, prima di risalire, lasciamo il nostro nome e la data al margine dell’ignoto.
Ho la testa pesante mentre scendo. Non voglio prendere una diramazione. Troppo basso e opprimente il soffitto, così continuo sul cammino principale. Sala dopo sala. Scendo per delle ore. Fuori è notte, ma lì non ci sono giorno e notte, c’è solo la mia torcia.
Sudo sotto l’elmetto.
Ci sono molti nomi in questo percorso, è il più battuto. Riconosco le iniziali di Cesare Lombardi, il primo a scendere più di un secolo prima. Le firme si diradano. Diventano un paio per ogni ambiente, poi meno ancora.
Illumino la mappa srotolata fino in fondo. Srotolata fino a quel passaggio che nessuno ha ancora osato affrontare.
Leggo le ultime firme sulla parete dove si apre la crepa.
Fisso la torcia all’elmetto, infilo le gambe in avanti e trattengo il fiato per stringere il torace. Riesco a passare, ma respiro a stento. Un centimetro alla volta mi spingo avanti. Quando perdo di vista l’accesso mi pento. Mi troveranno così, morto soffocato. O peggio.
Ho sempre temuto di trovare uno scheletro. Ci sono troppe leggende di persone perdute nell’Antro del Lombardi perché almeno una non sia vera, ma non avrei mai pensato di diventare io uno degli scheletri.
Ma una gamba si libera. Tasto il terreno, mi spingo e ruzzolo a terra.
Sono in una nuova sala, del tutto simile a quella da cui arrivo, con le stesse pareti di roccia bianca.
Spazzo da sinistra a destra con il fascio di luce, poi torno indietro, non credendo ai miei occhi. Uno scarabocchio fatto col carboncino. Illeggibile ma intenzionale.
Possibile che qualcuno sia arrivato prima di me?
Dovrei fermarmi ad annotare le novità per la mappa, ma la curiosità ha la meglio. Trovo due passaggi e ne imbocco uno.
Altri segni sui muri, più di uno questa volta.
Seguo un cunicolo che scende più a fondo, gli scarabocchi aumentano, alcuni minuti, altri tremanti.
Nomi di esploratori in una grotta insolitamente profonda, che risale come un formicaio verso un ignoto che temono e rispettano.