
Le macchine continuavano ad emettere suoni sommessi e allo stesso tempo assordanti.
Bip. Bip.
Era come il linguaggio morse. Il Bip significava vita, l’assenza di Bip significava morte.
Rachele si sedette sulla sedia accanto al letto di ospedale. Le luci erano soffuse, le tapparelle chiuse e il giallo delle pareti trasudava tristezza.
Prese la mano di Tom, ma lui continuò a tenere gli occhi chiusi. Il suo petto si alzava e si abbassava quasi impercettibilmente.
Rachele godette qualche secondo di quel contatto che era solo suo, poi baciò Tom sulla fronte e lui, finalmente, aprì gli occhi.
Lei non poteva vedere il suo sorriso, coperto dalla mascherina, ma i suoi occhi brillarono nel vederla.
Stavano insieme da quindici anni, eppure lui la guardava sempre come quella prima volta, al cinema, quando le loro mani si erano sfiorate per caso, per poi allacciarsi per la vita.
Una vita fatta di alti e bassi, di gioie e dolori, che loro avevano trascorso insieme, superando le intemperie del tempo, che spesso lascia segni indelebili sui legami più traballanti.
Loro avevano resistito a tutto: alla perdita del lavoro, alla perdita dei genitori, all’abitudine…
A tutto, tranne che all’incidente.
Rachele non ricordava bene quando il suo telefono aveva squillato, la corsa in ospedale, l’attesa fuori dalla sala operatoria. Erano tutte istantanee che faticava a mettere insieme.
Tom stava tornando a casa dal lavoro, l’asfalto era bagnato e un cane era apparso dal nulla.
Lui aveva sterzato per non investirlo ed era finito contro un palo della luce.
Semplice, senza colpevoli né vittime, senza nessuno da incolpare. La rabbia non trovava un bersaglio e questa era una delle cose che facevano soffrire di più Rachele. A volte la rabbia è l’unica forza che ti rimane quando anche la speranza sparisce.
Trauma cranico e alla colonna vertebrale.
Tom aveva perso il controllo del proprio corpo, ad eccezione del viso. L’unica parte di lui che ancora poteva ricevere e dare emozioni.
Rachele consumava quel viso ogni volta che poteva. Logorava quel lembo di pelle forse per aggrapparsi all’unica cosa che la legava ancora a suo marito.
Rachele baciò Tom con dolcezza.
«Sei pronto? Stanno per venire a prenderti.»
Lui fece cenno di sì senza staccare gli occhi da quelli di lei. Una lacrima gli solcò il viso.
«Stai tranquillo, sono sicura che l’operazione sarà un successo.»
Questa volta lui non si mosse, come in attesa.
Rachele si guardò intorno nervosa.
Gli infermieri entrarono e cominciarono a prepararlo. Gli tolsero la mascherina e le flebo.
Tom mimò con le labbra le parole “Piano B” e poi le mandò un bacio.
La notte avvolgeva tutto come un pesante mantello e nessuno notò l’ombra che sgusciava silenziosa nell’oscurità.
La figura entrò nella stanza 13b e socchiuse la porta. Passarono diversi istanti prima che l’ombra si muovesse di nuovo. La stanza era occupata solo da un uomo addormentato e da diversi macchinari. Bip. Bip.
Sembrava il suono di un tamburo. Bip. Bip.
La figura si avvicinò ai macchinari. Una lacrima brillò nell’oscurità.
Una mano tremolante cominciò a spegnere tutta la strumentazione.
Quando spese il macchinario per la respirazione assistita l’uomo aprì gli occhi di colpo.
Scrutò nell’oscurità. Bip. Bip.
Rachele gli accarezzò il viso e Tom si rasserenò. Bip. Bip.
Lei gli tolse la mascherina e lo baciò con disperazione.
Bip. Bip.
Bip.
…..