Il cielo del Rajasthan

Era calda Jaipur, e la pioggia d’agosto la rendeva afosa. John fissava le gocce decorare il piazzale deserto da sotto una colonna a forma d’elefante.
«Non può piovere per sempre.» Hari gli era piombato alle spalle, come sempre, e come sempre lo aveva sorpreso. Si guardarono attorno un istante prima di concedersi un bacio veloce.
«Parli del tempo?»
«Parlo di noi.»
«E allora non smetterà, non qui.» Mise le mani nelle tasche del gilet e prese un respiro profondo.
«Ti manca l’Inghilterra, vero?»
Il giovane lord sorrise e prese tra le sue, le mani color cenere. «Se tornassi mi mancheresti tu.» Un rumore in lontananza li fece ricomporre. «Per fortuna il mio posto é qui.»
Il servitore fece un passo indietro, il capo basso mentre un gruppetto di militari li superava. «Ho sentito che molti dignitari stanno rientrando in patria, se richiamassero anche tuo padre?»
«Tu verresti con me, e non rischieremmo la vita ad ogni incontro.»
Attesero che la ronda voltasse dietro la porta di Ganesh per defilarsi e sparire nel colonnato del palazzo.
 
L’ora del the: appuntamento immancabile dove il barone istruiva John sui suoi futuri compiti da governatore, leggevano dispacci, discutevano leggi. Non quel giorno, quel giorno erano soli. «Ci sono cose, figlio mio, che non vanno divulgate.» Il vecchio si lisciò i baffi sporchi di the al latte. Si avvicinò a John sporgendosi dalla poltrona. «Sistemerò questa incresciosa faccenda.»
«Che volete dire?»
L’uomo afferrò un sigaro dalla scatola in tek. «La gente parla, è pericoloso.»
Il ragazzo arpionò i braccioli, la mascella serrata. «Cos’è pericoloso?»
«Non posso proteggerti in eterno, non siamo a casa.» Uno sguardo eloquente fece ritirare il lacchè. «Non so quale… disturbo tu abbia, non mi interessa. Sei mio figlio: il mio compito è proteggerti, anche da te stesso se devo.»
John allentò il nodo del cravattino e slacciò il primo bottone della camicia. «E come farete?»
«Non deve riguardarti. Finisci il tuo the.»
Prese la tazza facendo tintinnare la porcellana sul piatto, un tremito più forte gli fece versare il contenuto. «Posso ritirarmi?»
 
La camera di Hari era nell’ala destra del Chandra Mahal, John corse lungo il porticato, evitando una ronda e superando i teli degli ambulanti, spalancò la porta e se la richiuse alle spalle. Vi si appoggiò per riprendere fiato. «Dobbiamo andarcene.»
Hari poggiò il libro che stava leggendo su una stuoia e si levò. «Che succede? Siediti, riprendi fiato.» Versò del the da una brocca e gliene porse un bicchiere.
«Non capisci dobbiamo andarcene, subito. Sanno di noi.»
«E dove andiamo?»
«Non importa, lontano…» Il suono sordo della porta spallata lo interruppe, non ebbe quasi modo di reagire quando una decina di militari piombarono nella stanza e li afferrarono. Due uomini gli bloccavano le braccia, la testa tenuta alta da una mano tra i capelli, mentre altri due avevano spinto Hari contro la parete. «Lasciatelo stare!» Un grido forte, che strappa la gola e spezza il fiato. Il Maggiore lo guardò per un lungo istante, nessuna espressione sul volto spigoloso. «Portatelo da suo padre.» Proseguì verso il proprio connazionale e imbracciò il fucile.
«No, no, vi prego.» La voce ridotta a uno squittio e lo sguardo fisso negli occhi del compagno.
Hari accennò un sorriso nella sua direzione, «non può piovere per sempre, amore mio.» sussurrò, poi lo sparo.