
Non ricordo un solo momento della mia vita in cui non avessi fame.
Del cibo, sempre scarso; della birra che bevevano i grandi, e poi di soldi e donne, di sorrisi invitanti e sguardi invidiosi. Fame di vita, e di mondo.
Secondo parenti e vicini, è stato questo a condannarmi.
Era la mia sfrenatezza a trascinarmi fuori ogni notte, a bere e fumare, masticare e scopare tutto quello che mi capitava a tiro. A ridurre la mia mente brillante a un grumo di appetiti insaziabili, frustrazioni e rancore. A condurmi verso lavori saltuari e debiti a cui sono sempre scampato per chissà che miracolo. A farmi abbandonare da mia moglie.
Hanno ragione su tutto, tranne che sull’ultimo punto: mia moglie non è andata via.
L’hanno presa le ombre.
Avevo quindici anni, quando ci parlai per la prima volta.
Non ci credevo, certo che no, ma mi recai comunque all’ingresso della cava, come aveva indicato lo zio, e parlai alla tenebra.
Non chiesi molto: qualcosa in più da mangiare, soldi. Fui bravo a trattenermi.
E, meraviglia, la tenebra rispose. Era fatta di fauci voraci e occhi famelici, di sorrisi obliqui e lingue lunghe quanto lampioni; di spiriti maligni e streghe disincarnate.
Una falange – l’ultima, del mignolo sinistro. Questo mi chiesero le ombre.
Esitai per otto giorni.
Ci provai quasi ogni mattina, e due o tre volte a notte, prima di riuscire a far calare la lama.
In seguito, lo descrissi come un incidente. Nessuno trovò mai la punta del mio dito.
Raggiunsi l’anno seguente con la pancia molto più piena.
Però, avevo ancora fame.
Il resto del mignolo mi valse mia moglie, che aveva occhi azzurri e la lingua più veloce di un frullatore, e il mio primo amante – il che causò un sacco di litigi.
In cambio dei capelli, ottenni la casa sulla collina, che sognavo dall’età di sei anni. Caddero a ciocche, doccia dopo doccia, in poco più di un mese.
Sull’occhio sinistro ebbi qualche dubbio: fino a dove mi sarei spinto? Quando mi sarei fermato?
I risultati arginarono le mie domande: due anni in viaggio tra Asia ed Europa, tra vecchie città e montagne antichissime. Appresi il vero significato della parola mozzafiato.
Tornai a casa senza un soldo. Per rimettermi in sesto, le ombre chiesero un corpo intero.
Per fortuna la mia ex moglie aveva coltivato una malsana nostalgia di me, in mia assenza.
Mi seguì alla cava con ignara obbedienza.
Negli anni procurarmi nuove vittime si fece più difficile. Oltretutto, un grave caso di inflazione emotiva mi affliggeva: meno tenevo al sacrificio, meno ottenevo dalle ombre.
E quello che ottenevo non poteva cancellare le mie mutilazioni, né allontanare la memoria dei miei peccati.
Né placare la mia fame.
Raggiunsi la cava al tramonto, ubriaco.
«Un altro corpo,» offrii. «L’ultimo».
Il mio.
La ragazzina non ha più di tredici anni. Ostenta coraggio, e un grosso coltello che si è portata da casa. Chiede che guariamo sua madre.
Siamo tutti indecisi, sul prezzo: i capelli, lunghi e brillanti? O le orecchie, giovani e intatte?
Bisogna chiedere poco, all’inizio, se no non tornano.
Mi ero illuso, tanti anni fa, che offrire in sacrificio il mio corpo martoriato avrebbe estinto la mia fame con me; che mi avrebbe dato sollievo. Invece finii qui, in fondo alla cava. Un’ombra tra le ombre.
«Un orecchio,» mormoriamo infine. «Il destro».
La bambina annuisce e, tremando, solleva il coltello.
Non ho mai avuto così tanta fame.