Un ritorno

Quarto classificato nella 148° edizione del contest principale dell’Arena di Minuti Contati, un racconto di Giacomo Puca scritto sul tema “L’unica verità duratura è il cambiamento”.

 
Dov’era la tabella con gli orari del treno c’è un pannello a led arancioni. Il treno riparte stridendo.
Alcuni led bruciati mutilano un “otto” in “zero”.
Vent’anni fa questa banchina brulicava di gente e brecciolina, adesso uno strato nerissimo di asfalto s’è mangiato breccia e gente. Almeno le ruote del trolley vanno lisce.
Nel parcheggio c’è l’auto che ho prenotato. Un ragazzo con la pelle olivastra poggiato alla portiera. Mi fa un cenno.
Mi siedo dietro, odore di autolavaggio. Come diavolo ci vive di taxi, in un paese di trecento abitanti?
Il ragazzo carica il trolley nel bagagliaio e sale. Dà una carezza al santino di Padre Pio incastonato sul bocchettone dell’aria e accende la radio su una stazione di tecno. «Le dà fastidio?»
«Lasci pure.»
Fa manovra ed esce dal parcheggio.
«Dove la porto di preciso?»
«Pensione Niro.»
«Bene» Ci fermiamo a uno stop, si gira verso me, tra i sedili. «Dalla signora.» dice ammiccante.
«È ancora viva?»
«E gode di ottima salute. Mi creda, ah ah!»
Sfiliamo lungo la statale. Pini giovani punteggiano i versanti un tempo tappezzati di vigne.
Prendiamo lo svincolo per il paese. Curve a gomito e tornanti, e a ogni curva un mazzo di fiori, un lumino, una targa.
Il ragazzo ne indica una, «eh, ormai qua è sport nazionale,» mima di bere da una bottiglia.
«Pensare che qui ci ho visto Pantani al Giro.»
Quello fa spallucce e cambia canzone.
Arrivati in piazzetta si ferma. Scendiamo.
Mi prende i bagagli e gli allungo una venti. Riparte sgommando, con la musica forte da coprire il motore. Un promettente candidato per i tornanti.
La pensione Niro è ridipinta di rosa acceso, fronteggia spudorata i blocchi grigi della chiesa di Santa Chiara.
Il trolley mitraglia sul selciato, il suono sparisce quando supero lo scalino della pensione e attraverso la tendina di plastica frusciante.
Nella reception hanno infilato un bancone con una spina e due sgabelli. Vicino alla macchina del caffè penzolano le chiavi delle camere.
Dietro il bancone ondeggia una schiena china.
«Buongiorno.»
La donna che si tira su sorride, sollevando un viso appesantito ma grazioso. Il reggiseno rosso si intravede sotto una camicetta verde acqua che era della taglia giusta una taglia fa.
«Salve,» mi fa un ciao con la mano. «Il nome?»
La voce mi calcia il cervello, spedendomi dritto fino alle superiori. Al periodo di una cotta fuori di testa per Giorgia Forti, sogno proibito per la mia e per chissà quante altre generazioni del paese.
«Giorgia?»
Lei stringe gli occhi, «Nicola?»
«Non mi dire… la signora Niro?»
Giorgia si irrigidisce. «La mamma di Gianni è morta sei anni fa.»
Gianni Niro, detto “il prete” per via delle ossessioni cattoliche imposte dalla signora Niro, si era sposato con Giorgia Forti e l’aveva resa la nuova signora Niro.
Era un po’ come se Don Camillo sposasse Britney Spears.
«E Gianni come sta?»
«Perché non lo chiedi alla troia minorenne che se l’è portato a Tirana?»
«Oh.» Mi passo la mano sulla pelata.
Ci fissiamo.
Giorgia tira fuori da sotto il banco una pezza e inizia a strofinare il bancone in cerchi sovrapposti. «Se ci penso… sai che mi ricordo poche cose di te?»
«Meglio così.»
«E tu di me quanto ricordi?» Smette di pulire e ci fissiamo di nuovo.
Sorridiamo. Entrambi sappiamo bene quanto io mi “ricordi” di lei.
Giorgia torna a fare i cerchi, e stavolta a ogni cerchio si avvicina un po’.
«Senti un po’,» Giorgia fa un altro cerchio, arrivando a stendersi sul banco, schiacciando i seni in una scollatura letale. «Se resti qualche giorno magari…» alza solo la testa e batte le ciglia.
La sensazione è quella di una fetta di torta al cioccolato, con la glassa lucida. La fetta di torta che hai visto cadere su un tappeto e che il cameriere ha coperto con altra glassa per nascondere il danno. La fetta di torta lasciata sul bancone per vent’anni.
Mi sfioro la fede. «Vorresti prendere un caffè?».
Giorgia si rialza appena, puntando un gomito e poggiando la testa sulla mano. Annuisce.
Stringo la maniglia del trolley e tiro su. «Mai sopportato il caffè.»
Giorgia salta in piedi, con la camicia strisciata dei liquidi del bancone e il rosso del reggiseno ben visibile.
Indico le chiavi appese.
Pietrificata, Giorgia mi passa una chiave, la testa bassa.
L’afferro e me ne vado in camera.