L’attesa

Finalista nella 149° Edizione di Minuti Contati, un racconto di Davide Di Tullio.

 
La porta sbatte e apro gli occhi.
La quinta sinfonia di Mahler scivola nelle orecchie come miele e mi regala un attimo di pace.
Mi sollevo e poso i piedi sul pavimento gelido. Un capogiro improvviso. Devo essermi alzato troppo in fretta.
«Se non ti sbrighi rimani a stomaco vuoto». Una voce arriva dalla latrina. Martin spalanca la porticina ed esce tirando su la patta.
Un tanfo di piscio mi arriva al naso.
Infilo le mani sotto le ascelle. «Dio, si ghiaccia!» Una fitta mi pinza lo stomaco.
«La caldaia è rotta».
Mi alzo in piedi e mi trascino alla sedia. Afferro i pantaloni e li indosso. «Quando passeranno a sistemarla?»
Martin storce la bocca in un ghigno luciferino. «Resta all’asciutto, pivello.»
Calzo le scarpe. La giacchetta di lana mi sta su a malapena e dovrei fare un altro buco alla cintura.
Afferro il cappotto, infilo il cappello e attorciglio la sciarpa umida intorno al collo. Un brivido scivola sulla pelle come un rivolo di pioggia fredda. Mi pare di essere sul patibolo. Eccomi! Il boia! La vittima!
«Pane nero e latte di capra.» Martin poggia un piede sul mio letto e si allaccia la scarpa. «Baracca C.»
Sollevo il bavero del cappotto e faccio un passo fuori dal dormitorio. La neve mi arriva ai calcagni.
Seguo le tracce grige scavate nel ghiaccio. Ombre ondeggiano nella nebbia come sciami di mosche in una tempesta. Qualcuno si accascia. Gli altri proseguono.
Passo di fianco allo spettro riverso, che si volta e boccheggia. Il petto si solleva e si abbassa come un pistone impazzito. Il viso ossuto sfuma in una nuvola di vapore che sfiata da un orribile orifizio screpolato. Quella dovrebbe essere la sua bocca. Disgustoso. Indietreggia strisciando come un lombrico, si solleva e barcolla. Si volta e scompare nella foschia.
Tiro fuori l’orologio dal taschino. Le lancette segnano le 8:00. Accidenti!
Alzo il passo. Ancora un crampo allo stomaco. Mi stringo nel pastrano.
Ci libereremo di questi parassiti, ne sono certo.
Una folata di vento mi tramortisce come una palla di cuoio in faccia.
Eccola la, la baracca C. Tiro la maniglia ed entro. L’anta si serra alle spalle con un tonfo. Chiudo gli occhi e assaporo il tepore della mensa.
«Sei venuto a portare via la spazzatura?»
Riapro gli occhi e, oltre il bancone in fondo alla sala, un uomo dalle guance infuocate mi guarda impaziente.
«Vorrei la mia razione.»
L’uomo si sfila il grembiule e trascina qualcosa. Apre il bancone e si avvicina con un sacco di juta. «Eccola la tua razione», sghignazza.
«Sono di ronda, mi spetta.»
«Non ti spetta un bel niente! Se arrivi tardi, non mangi.»
La pancia brontola. Gli occhi mi si inumidiscono. Deglutisco e mi accarezzo la ciste alla base del collo.
«Ho fame!»
«Sei sordo, per caso?»
Tornerò a ingozzarmi di birra e gulasch. Mi passo la lingua sulle labbra. Ci vuole pazienza.
Faccio due passi e sfilo via il sacco dalla mano dell’uomo. Lui mi volta le spalle e sparisce dietro il bancone.
Il vento soffia tra le assi della baracca, che sembra un’orchestra di fiati. Trascino il sacco, fino alla porta. Fuori dalla finestra, la bufera si accanisce sulle schiene di quei vermi che vagano in attesa di morire. Dio, quanto vorrei che lo facessero all’istante.
Il cappotto sgocciola sul pavimento. Apro il sacco e frugo tra gli avanzi rancidi. Una mollica di pane zuppa. L’afferro con due dita e lo porto alla bocca. Sa ancora di latte.
Il riflesso della lampada sullo specchio mi ricorda la vecchia osteria di Hemsbach. Mi sporgo in avanti e passo una mano unta sulla spalla. La svastica nera si staglia sullo sfondo rosso. Che meraviglia!
Scuoto la testa e sorrido. Sono uno sciocco! Ho una missione! Abbiamo una missione!
Mi siedo sulla panca e caccio la testa nel sacco. Una noce di burro! La schiaccio tra le dita e me lo infilo sotto la lingua.
Alla parete un calendario sgualcito segna “8 Gennaio 1945”. Ci vuole pazienza, sì. In fondo non è poi così male qui.