
Lo vedo da come rientra a casa, qualcosa non va.
“Ciao, tesoro” parlo senza alzare lo sguardo dal tagliere. Il suono ritmico della lama contro il legno lancia segnali morse ubriachi fra le pause. “Com’è andata la giornata?” spio la sua reazione con la coda dell’occhio, se sbuffa qualcosa è andato storto in ufficio, se sospira è preoccupata. Non dice nulla, si toglie la giacca, rimane impigliata nella borsa e ancora non fiata.
Prende tempo sfilandosi i tacchi rossi dai piedi, da dietro, sa che mi piace. “Così così. E la tua?”
Carote e sedano nella padella, scrollo le spalle: “Soleri fa la lagna in ufficio. Ah, ho portato la tua macchina a lavare” la scruto ancora, ma niente, non un sussulto, non una reazione. La macchina non c’entra, non è inusuale che prenda la mia, la preferisce perché ha il cambio automatico. Ok, alla macchina non è successo niente.
“È arrivato un pacco per te” lo indico con il coltello. È abbastanza ingombrante, ma leggero. Non l’ho aperto, non sono quel tipo di marito.
“Ah, sì” mi fa, neutra. Glielo leggo da come si toglie gli orecchini che c’è qualcosa.
Mi si avvicina, traccia una traiettoria ad arco invece che venire verso di me per la via più breve.
“Cosa prepari di buono?” mi si appoggia alla spalla. Sorrido, volto la testa per darle un bacio sulla guancia. No, il pacco non c’entra. Dio com’è bella con quei capelli alla maschietta.
“Un soffrittino.” sfumo gli ingredienti con del vino bianco e mi sposto per prendere due calici dalla credenza. È un discreto bianco siciliano, è un peccato usarlo solo per cucinare.“Pappardelle al ragù bianco.” riempio i calici, alzo gli occhi e lei non è più nella stanza.
Mi sento parecchio stupido mentre vago per la cucina open space con i due calici in mano.
“Tesoro…?”
Dopo poco mi risponde il suono dello sciacquone e lei torna con lo sguardo deformato da un dischetto di cotone struccante. Nota i bicchieri, mi guarda: “Oh, grazie!” si affretta a levarmi l’imbarazzo del calice di troppo.
Bevo un sorso, che mi rinfranca. Quando riporto lo sguardo su di lei, sta fissando senza assaggiarlo il colore giallo intenso del vino, facendolo rotolare lungo le pareti del bicchiere.
“Senti” comincia, si ferma.
“Che c’è?” provo ad imbeccarla, ma lei dopo aver soppesato i pro e i contro fa un gesto vago con la mano e tenta di sorridere per tranquillizzarmi: “Niente. Non è niente”.
È come un libro aperto, non sbaglio mai.
“Dai dimmi che c’è.”
“Niente, ti ho detto” prova a fuggire dandomi le spalle, poi si ferma “È solo una cosa stupida”.
Io finisco il mio vino in una sorsata. L’olio nella padella si lamenta ad alta voce, do un giro con il cucchiaio agli ingredienti e mi avvicino: “Adesso devi dirmelo”.
Lei corruga la fronte e storce le labbra rosse anche senza il trucco: “Devo?” da come la pronuncia anche soltanto il suono della parola la disgusta. Errore mio, pessima scelta di parole. E sì che la conosco a memoria, mia moglie. So di aver ragione. Provo a stringerla alle corde.
“Devi, sì. È da quando hai messo il naso in casa che so che c’è qualcosa che non va. Che modi! Non iniziare un discorso se non lo vuoi finire. Non è gentile e nemmeno educato, mettere la pulce nell’orecchio e nascondere la mano!”
Le scappa una risatina al mio strafalcione e si rilassa abbastanza da concedersi una boccata di vino: “È buono”.
“Lo so. Avanti, dimmi”.
Lei si morde l’interno della guancia e a me vanno in allarme tutti i recettori. Agosto 2016. Quando doveva decidere tra la nostra agognata vacanza e la commessa di un cliente importante, sapendo di aver già deciso per il dovere a scapito del piacere. Quando lei si morde l’interno delle guance c’è una notizia che non vorrebbe darmi in arrivo, dolorosa quanto ineluttabile.
Si ferma all’improvviso, mi guarda con due occhi grandi così. “Tesoro…” mi fa e in quel momento realizzo di non averle mai detto che mi fanno impazzire i capelli tagliati a caschetto corto, come la Valentina di Crepax. Mi chiedo se sia stato solo un vezzo suo e non il sintomo di qualcos’altro. Di qualcun altro. E i tacchi per un normale lunedì di lavoro? Ormai mi sembra ostile e infausto anche il pacco, con la sua mole ingombrante e la sua insostenibile leggerezza. Pure il soffritto pare ridere di me, mentre si carbonizza nella padella lontano dalle mie cure.
Corro a cercare di salvarlo, mi sembra fondamentale ora, una base su cui poggiare il salvataggio del mio matrimonio, insospettabilmente finito a carte e quarantotto un qualsiasi lunedì sera, alla presenza divertita di un soffritto piuttosto sciapo.
Mentre gratto con il cucchiaio di legno il fondo della padella, nel tentativo di salvare il salvabile, lei mi arriva alle spalle, mi toglie il cucchiaio dalle mani, spegne il fornello e tirandomi per una manica mi fa voltare.
Forse sta per piangere, forse è solo una luce diversa. Mi guarda fisso, le labbra color ciliegia si muovono sopra il lavorio dei molari contro le guance.
“Tesoro, non ti arrabbiare ma…”