Abete rosso

Un addio struggente in questo racconto di Carolina Pelosi, terzo classificato nella 113° Edizione di Minuti Contati con Feederico Guerri come guest star.

 
Il giorno del funerale di mio fratello la primavera era iniziata da poco. Ci stava il sole e io non riuscivo a piangere, avevo le mani sudate e mi facevano prurito, continuavo a passarmele sulle cosce, contro i pantaloni. A un certo punto avevano iniziato a bruciarmi.
Carlo stava chiuso dentro una bara di 180 centimetri, chiara, di un colore che tendeva al miele, segnata da venature dritte e profonde. Era di legno d’abete rosso. C’ero anche io quando mamma andò a sceglierla, quel legno è uno dei più resistenti tra tutti i legni della galassia, a lei andava bene per questo.
Pochi giorni prima che morisse, Carlo non parlava quasi mai. Passava il tempo dentro la sua camera da letto, al buio, con le imposte chiuse, la porta chiusa, gli occhi chiusi. Un paio di volte ero andato a bussare, avevo provato ad aprire piano la porta ma appena il più piccolo fascio di luce squarciava la stanza, lui grugniva e mi chiedeva di chiudere. Non usciva neanche per mangiare, soltanto per andare al cesso. E la maggior parte delle volte ci andava per vomitare.
Una volta in bagno ci stavo io, quando lui arrivò mi vide seduto sulla tazza, aveva gli occhi pieni di lacrime, due macchie scure che si allungavano sulle guance e la canottiera chiazzata appiccicata alla pelle, come se fosse appena uscito dalla doccia e avesse dimenticato di spogliarsi. Mi vomitò sulle scarpe. Io non dissi niente, lui neanche. Se ne tornò in camera, tremando.
Il giorno del funerale di mio fratello c’erano poche persone. Quando muore qualcuno che non ha neanche trent’anni, i funerali sono pieni di gente giovane che si chiede perché adesso, perché così presto. Invece al funerale di Carlo a piangerlo non c’era neanche uno dei suoi amici.
Era rimasto da solo, aveva allontanato tutti quando la sua vita gli era sfuggita di mano. Le ultime settimane usciva di casa solo per andare con mamma agli incontri, il martedì e il venerdì. Dopo il primo mese avrebbe ricevuto la prima spilletta premio, per aver intrapreso bene il suo percorso. Avrebbe dovuto aiutarlo a guarire. E mamma era fiduciosa.
E invece non stava guarendo, non dormiva più, la notte lo sentivo lamentarsi e scalciare, ma non avevo il coraggio di andare da lui per aiutarlo. Era talmente triste, che aveva reso triste anche me. Senza rimedio. E io la speranza non ce l’ho mai avuta veramente.
L’ultima sera l’avevo visto schizzare fuori dalla sua camera e uscire di casa, senza mettere neanche una giacca addosso. Non ero riuscito a chiedergli niente, a fermarlo, ma avrei dovuto. Avrei dovuto perché il cestino coi soldi che mamma tiene in cucina era vuoto e avevo capito dov’è che stava andando così veloce. Mi veniva da piangere e da vomitare, ero da solo e riuscivo solo a ripetermi che ero un coglione.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi.
Il giorno del funerale di mio fratello mamma teneva un nastro rosso attaccato alla giacca e anche uno legato tra i capelli. Pure gli altri ce l’avevano e prima di uscire ne aveva dato uno anche a me, ma l’avevo messo nella tasca dei pantaloni, nascosto.
Non volevo salutare Carlo ricordandogli gli errori che aveva fatto.