
Alberto si gira su un fianco e mi dà la schiena, le molle del letto cigolano sotto il suo peso. L’aria nella stanza sa di palude e carne avariata, di certo non ha aperto la finestra neanche un attimo.
Trattengo il respiro e mi avvicino. «Dovremmo uscire un po’.»
«Non mi va.» Si gratta un braccio fino a scavare un solco, brandelli di carne e pelle si adagiano sulle lenzuola.
Mi siedo sul bordo del letto e allungo una mano verso di lui. Gli sfioro il collo, si irrigidisce, prova a ritrarsi. Non demordo, i polpastrelli salgono alla nuca, un tocco appena percettibile, come piace a lui. La tensione si allenta, i muscoli sotto le mia dita si rilassano. Lascio che il naso si rassegni al tanfo e avvicino le labbra al suo collo, la mia mano esplora, raggiunge il suo petto, il capezzolo…
Il capezzolo si stacca fra le mie dita, Albe scalcia e mi spinge indietro. «Lasciami, Marco. Faccio schifo.»
«No.» Mi allontano, torno a sedere. Gli lascio i suoi spazi. «Sei splendido. Come sempre.» Lo è davvero.
Lui preme la testa sul cuscino e si infila le dita fra i capelli, le affonda nel cranio. «Sono un mostro, ecco cosa sono.»
«Basta.» Mi alzo in piedi e raggiungo l’armadio. Le maniere dolci non hanno funzionato, è il momento di cambiare approccio. «Non starò qui a guardarti mentre ti deprimi. Vestiti e usciamo.»
Afferro museruola e guinzaglio e le lancio sul letto.
Albe avanza a quattro zampe, la testa rivolta in basso per evitare di incrociare gli sguardi. Potrebbe camminare eretto come una persona qualsiasi, ma la maggior parte della gente quando incontra un corrotto si aspetta di vederlo avanzare carponi, come una bestia. Abbiamo valutato che è più sicuro confermare i pregiudizi altrui. Diamo meno nell’occhio così.
Una signora prigioniera di un tailleur troppo stretto scende dal marciapiede e ci gira al largo. L’uomo che l’accompagna rallenta il passo, ci fissa. Scuote la sua testa di cazzo brizzolata, il labbro teso in una smorfia disgustata.
«Perché mai si prenderanno delle bestie del genere», lo sento bofonchiare.
Alberto si volta nervoso, strattono il guinzaglio e lo riporto a me.
«Lascia perdere», sussurro.
Lui si gratta la faccia, seminando pezzi sul marciapiede.
Raggiungiamo il parco, la nostra panchina, dove ci siamo baciati per la prima volta.
Prima che Alberto scoprisse di essere un corrotto, prima che iniziasse a decomporsi.
Mi siedo, lui si accuccia ai miei piedi. Mi piacerebbe slegarlo ma c’è troppa gente.
«Guarda, mamma!» Un moccioso biondo punta il dito verso di noi, Albe fa finta di niente.
«Quante volte ti ho detto che non si indica?»
Brava signora, insegni a suo figlio a farsi i cazzi propri. E invece la donna, una vichinga coi dreadlock e un assurdo gonnellone colorato, lo trascina da noi. «È malato ma non è cattivo. Non ti farà niente.»
Resto a bocca aperta, resisto alla tentazione di dirle che invece li sbranerà entrambi.
«Scusa.» La donna si china verso di me. «Mio figlio può tenere il guinzaglio? Vorrei che imparasse un po’ di empatia verso questi disgraziati.»
Alberto solleva gli occhi verso di me in una disperata supplica. Può sopportare la gente che cambia strada al suo passaggio, ma questo patetico pietismo è troppo per lui.
«Certo.» Mi giro per risparmiarmi il suo sguardo. «Tieni, piccolo.»
Il bambino afferra il guinzaglio. Muove due passi, dà uno strattone. Albe si rassegna a seguirlo.
La donna si siede accanto a me. Prego in silenzio che non si accolli. Invano.
«Ti invidio, sai? Sei un ragazzo coraggioso.»
«Come?»
«Prendersi cura di quell’infelice. Non è da tutti.»
Ingoio un grumo di saliva. «Guardi, sa prendersi cura benissimo di sé stesso.»
Sorride, mentre osserva il figlio che impara l’empatia. «E non hai paura di infettarti?»
«No, certo.» Allargo le braccia. «È appurato che i corrotti non sono contagiosi. È una predisposizione gene—»
«Anch’io sono una persona tollerante, ma non mi spingerei mai fino a questo.»
Non sta ascoltando una parola di quello che dico.
Alberto aveva ragione, è stata una pessima idea uscire di casa. Lo guardo mentre si lascia trascinare dal marmocchio, così che la madre domani potrà vantarsene coi suoi amici hippy.
Lo guardo, e di colpo so cosa fare.
Salto in piedi, raggiungo il bambino e gli strappo il guinzaglio di mano.
«Guarda, scricciolo, ti mostro una cosa.» Mi volto verso Alberto. «Alzati in piedi.»
Lui mi osserva, perplesso. Lo afferro per un braccio e lo tiro su. «Basta con questa pagliacciata.»
Gli passo una mano dietro il collo, slaccio la museruola. Qualcuno grida.
Prendo il suo viso fra le mani, lo avvicino al mio. Chiudo gli occhi e lo bacio.
Si irrigidisce, prova a sfuggirmi, uno, due secondi. Poi le sue labbra si schiudono e accolgono le mie. Mi abbraccia.
La mamma tollerante urla qualcosa di incomprensibile, una cacofonia di insulti ci sommerge, qualcuno starà avvertendo la polizia.
Non me ne curo, ci sarà tempo dopo per pensarci.
Un pezzo delle sue labbra si stacca e mi scivola sulla lingua, il sapore della carne morta mi invade il palato.
Il sapore di Alberto.
Il sapore più buono del mondo.