
Mi tolgo i vestiti, l’impermeabile, neri di tessuto e di sporco. Quando li lasciamo nello spogliatoio, rimangono appesi ai loro supporti come impiccati.
Ci aspettano tutta la notte, fino al giorno dopo, immobili.
Attorno a me, solo due o tre compagni silenziosi. «A domani, Piotr.» Lo saluto in francese, poche parole che ho imparato. Mi risponde solo con un cenno, si pulisce il volto con l’asciugamano lurido.
Fuori, aria fredda penetra fra i vestiti, dopo caldo, sudore, polvere in cui sono stato immerso tutto il giorno, nella galleria buia.
Le due torri di estrazione, le Belles-fleurs come le chiamano tutti, sono nere sul tramonto. Un ultimo ascensore risale dalla miniera: le voci dei miei compagni a fine turno sono quasi allegre. Alla mattina non parla nessuno, si sente solo sferragliare.
I miei scarponi fanno rumore, risucchiati dal fango che invade il piazzale vicino al terril, la collina conica delle scorie. Muovo le spalle affaticate dal martello pneumatico, ripenso ai due stupidi ungheresi feriti da un carrello fuori controllo. Sono risaliti con me in barella: rivedo le bende insanguinate, sguardi terrorizzati.
Il campo ormai è al buio: baracche tutte uguali, il fumo nero delle stufe che crea una nebbia oleosa. Questa notte pioverà forte, la serata ideale per uscire subito, annegare nell’alcol.
Quando apro la porta, il silenzio continua. Di solito mi accolgono le urla dei bambini: giocano sul pavimento mentre Rita cucina. Ora c’è solo lei: occhi rossi, lacrime che le rigano le guance.
«Cos’è successo?» Stanchezza, irritazione filtrano nel mio tono anche se mi sforzo di mascherarle.
«Lo hanno picchiato. Lo sapevo.»
È tutta colpa tua.
Non lo dice, ma è come se il suo corpo accasciato lo urlasse nella stanza.
«Picchiato? Ma chi? Perché?»
«I compagni belgi, lo hanno provocato come al solito, perché non capisce il francese. Ma poteva essere per la nostra pelle scura, per l’odore che facciamo. Non importa. Questa volta non è stato zitto: sei tu che gli hai detto che si devono difendere, giusto? Massimo ha dato un pugno a uno, tutti gli altri gli sono saltati addosso.»
Rita striscia i piedi sulle assi sporche. Si avvicina nella penombra al letto dei ragazzi, dove dormono uno da testa e l’altro da piedi. La seguo dopo un attimo, controvoglia, ancora col giaccone addosso. Sul volto di Massimo l’occhio nero è evidente anche nell’oscurità. Stringo i pugni, i denti.
«Il maestro è venuto qui, oggi: almeno lui è stato gentile. Sono riuscita a capire che se non si applicano ripeteranno l’anno.» È magra, pallida. So che durante il giorno non esce quasi mai di casa. Ma quando parla di loro riprende il colorito, rivedo la ventenne di cui mi sono innamorato, a Faenza: bella, forte, fiera. Una leonessa.
«Biagio, dobbiamo tornare. Mio padre ci aiuterà, lo sai. Ti prego.» Cade in ginocchio, mi afferra una gamba e mi fissa, mentre io rimango in piedi, la mascella tirata.
«Basta!» Il tono della voce si alza: rabbia, frustrazione. Mi trattengo a stento dal tirarle un calcio come l’altra sera. I bambini si muovono nel sonno.
«Sai cos’è successo a Carmine? Non te l’ho voluto dire apposta. Ci ha provato ad andare via, lo hanno arrestato. Non è ancora tornato a casa dopo una settimana.» Mentre parlo, le punto un dito in faccia, poi diventa un pugno, vicino al suo naso. «Vuoi questo? Che mi portino via? Dobbiamo restare, così guadagnerò abbastanza, ce ne andremo a Charleroi, o a Bruxelles. Non in Italia, mai più. Te l’ho già detto. Adesso devo andare fuori, non mi aspettare per cena.»
Sbatto la porta, forte. Il rumore della pioggia soffoca i suoi singhiozzi.
In paese, noto un nuovo cartello scritto in caratteri di stampa netti, duri, appeso al muro vicino all’entrata del bar: non si affitta agli italiani.
Apro la porta, un flusso umido di luce gialla, puzza di alcol e vomito mi investe. Nessuna risata, solo bassa conversazione che si interrompe quando entro.
Sento i loro occhi su di me. Li ignoro, mi siedo al bancone, ordino la prima birra.