
L’ho fatto. Finalmente.
Riprendo a respirare regolare, ma la testa continua a girarmi. Mi siedo sul bordo del divano, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani alla fronte. Sento i jeans infradiciarsi a poco a poco sul sedere. Le tempie pulsano.
“Alla tua età la gente si sposa.” La voce di mio padre mi rimbomba nella mente. “Si compra una casa, si fa una famiglia. Alla tua età si mettono…”
Mettere radici.
È stato il mio chiodo fisso, per tutta la vita. Piantato nel cervello con invasata tenacia. “Hai fatto morire tua madre nell’angoscia” mi diceva. “Quando sarà, fammi crepare tranquillo.”
Mettere radici.
Un mantra di appartenenza. Come se solo chi abbia una casa, una famiglia, dei figli, possa essere considerato un individuo socialmente valido.
Mi alzo, scivolando all’indietro con una gamba. Per poco non ricadevo col sedere sul divano. Forse devo asciugare il pavimento, pulire, riordinare. Mi sento svuotato, non so che devo fare.
Uno squillo.
Mi sfilo il cellulare dalla tasca: è il numero di Marco. «Ciao. Che dici?» La voce non mi sembra nemmeno più la mia.
«Luca… mi devi scusare…» Forse sta cercando di trovare le parole giuste. Pensa che me ne possa fregare qualcosa, l’idiota.
«E di che?» Lo salvo dall’imbarazzo. «Tranquillo, non c’è problema.»
«Mi hanno bloccato al lavoro. È successo un bordello. Tutti i sistemi giù.»
Lavoro…
Del resto, Marco ci si può dedicare anima e corpo. È single, beato lui!
«Ma lasciamo perdere me» continua. «Tu come stai?»
Mi guardò intorno, che macello che ho fatto. Sento l’ansia montarmi da dentro, ribollirmi lo stomaco. «Mi riprenderò. Sta’ sereno.»
D’altronde, a che cazzo devi pensare tu, Marco? Ti alzi la mattina con la sola preoccupazione di andare a correre e poi a lavorare. Senza rotture di coglioni. Senza imprevisti. Senza salti mortali, tra figli piccoli che si ammalano di continuo, e permessi al lavoro, nottate in bianco per recuperare quello che non si è fatto. L’unico cruccio che hai è quello di dover decidere chi ti scoperai nelle seratine alcoliche, se la mora o la bionda di turno.
Le seratine…
Ne ho un ricordo vago, fumoso. Di fatto, non so nemmeno più che cazzo sono.
Silenzio all’altro capo della chiamata.
«Oh, ci sei?» gli faccio.
«Sì. È che non ho parole. Mi dispiace davvero tanto.»
«Lo so.» Con il piede insudiciato disegno un cerchio sul grès.
«Cristo. Tuo padre stava bene, ce ne aveva ancora da vivere.»
Un colpo al cuore. Improvviso. Definitivo.
È iniziato tutto quando la donna delle pulizie mi ha chiamato da casa di papà, singhiozzando e piangendo. Dentro di me è scattato qualcosa. Durante il funerale era già dilagato in un che di incontrollabile.
La puzza che ammanta la sala da pranzo mi ravviva il sapore ferroso in bocca. Raggiungo la finestra e la apro, per cambiare l’aria. «Ora devo andare. Ci risentiamo.»
«Per qualsiasi cosa ci sono, eh.»
«Si si, certo.»
«Un abbrac…»
Chiudo la chiamata, senza dargli il tempo di concludere. Quindi mi guardo intorno per l’ennesima volta. Quando sono tornato a casa, papà era stato sepolto. E io ero libero. Eppure, gli urletti e gli schiamazzi continuavano ad assillarmi. Striduli. Acuti. Spine piantate nel mio cervello imprigionato in un bozzolo di radici malate.
Mi volto verso il divano, verso Anna. Il corpo di mia moglie dilaniato, non so da quante coltellate: non le ho contate. Squarciato dal collo alla fica, le budella di fuori. La puzza di merda è rivoltante.
Cammino verso la finestra, cartilagini e parti molli crepitano e sguisciano sotto le suole. Al piccolo Giulio è toccata un’altra fine: l’ho preso per le gambe e gli ho spaccato la testa contro il termosifone. Lo schiocco secco mi ha fatto ripensare alle uova di cioccolato che avremmo rotto a Pasqua.
Mi affaccio di sotto, pensando a Linda. Le piaceva farsi chiamare “la gioia di papà”. L’ho massacrata di botte, fino a ridurla a un corpo ammaccato e bitorzoluto.
Forse è una storia che mi toccherà raccontare alla polizia. E se mi chiedono perché l’ho fatto, che gli rispondo? Io libero non mi ci sento. In realtà, non sento più niente.
Mi siedo sul davanzale della finestra dando le spalle al vuoto.
E lancio un’ultima occhiata al luogo dove avevo messo radici.