
La donna sulla panca deve avere un mal di schiena tremendo, visto che è rimasta stesa lì tutta la notte. Dio, che occhi gonfi che ha. L’avevo avvertita che suo marito non si sarebbe salvato ma, d’altronde, come potevo pretendere che mi desse retta? Si alza e mi viene incontro. Rughe a parte, è ancora una bella donna.
Reggo il peso del suo destino, le mie parole cambieranno la sua vita: le dico di suo marito.
Apre la bocca senza emettere alcun suono, ma io so cosa non riesce a dire. Prima mi adorava per aver intubato suo marito contro ogni pronostico, e adesso mi odia perché non ce l’ho fatta a salvarlo. Non sono nessuno per lei, se non l’ago della bilancia che ha fatto pendere i piatti della vita in suo sfavore. Dimenticherà il mio nome, l’ospedale, il dolore alle ossa causato da quel giaciglio improvvisato; ma la mia faccia no, non la scorderà mai.
Il suo viso pare liquefarsi, il trucco sciolto cola sui risvolti del colletto della camicetta. Mi tolgo la cuffia e la stringo forte.
Se mi lasciassi andare e le tendessi la mano?
No. Muro. Ci sono innumerevoli mogli di altrettanti pazienti morti, e miliardi di frammenti di cuori spezzati aleggiano su questo mondo pronti a piovermi addosso. Queste non sono le mie lacrime, le mie le tengo dentro, sigillate, al sicuro: per ogni istante d’amore ne ho uno scrigno pieno, come in quella poesia della Dickinson.
Giro i tacchi, le ciabatte di plastica stridono sulle piastrelle asettiche.
Torno in reparto, Betty mi si avvicina e miagola qualcosa. Ha ancora la mascherina addosso che le copre il viso. Tanto meglio, non è una bellezza. Mi sfiora la spalla con la mano, mi chiede se ho bisogno di sfogarmi.
Poveretta, da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme non fa altro che provarci con me. Ecco un’altra donna dura, testarda, che non riesce ad accettare la verità. Devo mandarla via, dirle di smettere di elemosinare la mia attenzione.
E invece la invito a cena.
Un fremito la coglie, posso scorgere la nube dei suoi feromoni. Ci diamo appuntamento tra pochi minuti, il tempo di cambiarci.
La seguo con lo sguardo dirigersi agli spogliatoi. Indosserà il vestito che mi ha già mostrato, quello stretto alla vita che risalta le sue poche tette: da quanto se lo porta dietro?
Ma chissà cosa mi è preso. Il mio muro è crollato, oppure non c’è mai stato?
Stasera andrò a cena con Betty, berrò tanto vino, riderò alle sue battute, l’accompagnerò a casa e la mollerò lì con un semplice arrivederci.
Tornerò al mio monolocale, mi butterò a letto, ammirerò la danza concentrica delle travi del soffitto, piangerò fuori l’anima… e domani mi sveglierò col mal di testa, prenderò la paletta e la scopa per raccogliere i calcinacci del rudere che è il mio cuore, e li userò per mettere in piedi un altro muro, si spera, più forte di quello che è appena crollato.
Infine tornerò in ospedale, mi porteranno un altro paziente senza speranza, lo intuberemo e attenderemo il suo decesso, come figli devoti e amorevoli.
E poi sarà tutto da rifare.