Insonnia

Non c’è nulla da fare, se chiudi la finestra, sento odore di antitarme venire dagli armadi, se la spalanchi, quello di decomposizione vegetale.
Inutile che mi guardi così: sai bene che piove da giorni e gli ibischi, gli oleandri e le cipolle sono marciti.
E io dormo male comunque.
Cos’è quell’ombra dietro di te? Riecco la falena Atropo, con il suo teschio sul dorso, a illudermi che il sonno arriverà per me senza risveglio.
Oh, no, ora gridi, e chi soffia alle tue spalle? Il pipistrello dai denti di cane.
Eccomi: tu hai il tuo ombrello e io il mio.
Lo abbiamo scacciato.
Mi dispiace che dovremo cambiare le tende del soggiorno; quella carogna ha strappato i motivi di cestini fioriti.
Su, non guardarmi così, prenderemo una zanzariera oltre alle tende, anzi, metteremo zanzariere in ogni camera, così non entrerà più.
Ti accarezzo il volto segnato dalle occhiaie, povero caro, io non dormo e quello malridotto sei tu.
Inutile che lo neghi, ti sento camminare di notte, a volte ti tirano giù dal letto i latrati dei cani del vicinato, altre, lotte di gatti: sento i tuoi bisbigli, le tue frasi di incitamento per i vari contendenti.
E mi rigiro, nel letto, imponendomi di dormire.
Ci riesco, sai? Scivolo, a volte in una città sconosciuta, dove c’è gente che corre a vedere i nuovi locali dove si vende frutta pastellata al miele, sidro e mi defilo con il pacchetto degli acquisti, camuffata ogni volta, perché in quella città tu non ci sei mai e io salgo in una casa, dove un grande affresco che raffigura il mare dalle onde schiumose rende più saporito il pasto di frutta e sidro e piacevole l’attesa.
Poi mi risveglio e torno a sentire miagolii, abbai, i tuoi bisbigli, e non ti posso raccontare nulla della mia città, perché tu dormi meno di me.
Mi alzo e ti vedo crollare a letto dopo che hai tirato le tende della tua stanza e abbassato la tapparella: nel buio brilla il cellulare con la sveglia già programmata.
Sono questi mobili, sai, per me hanno assorbito il sonno di gente vissuta oltre ottant’anni prima di noi e ora stanno facendo lo stesso con noi: sì, ce lo rubano per restare intatti, però non oso cambiarli, tu ci sei legato.
Lo capisco, fanno parte della tua eredità.
Da una parte temo di privarmene, perché in uno di essi c’è la chiave al mondo in cui c’è quella città sconosciuta dove ti aspetto e vivo nella casa con l’affresco: sospetto sia il mobile con i calici delle feste e le ante di vetro ornate di fregi floreali.
Potrebbe essere anche il letto, con la testiera a motivi di conchiglie e fiori.
Ora, però, basta con questo lamento, hai ragione a sbuffare.
Il risveglio è anche peggio, lo so, siamo stanchi tutti e due, e la vita si trascina fra bus non sempre in orario, lavori dove non sempre c’è calma.
Vale la stessa regola: ci innervosiamo, dormiamo sempre peggio, e diventa pesante portare anche la borsa con il pranzo.
Perciò i miei sospetti su cosa ci stia riducendo a pezzi si estendono ai bus, agli orologi, agli uffici che pullulano di nervosismo e occhiate infide.
Questi non possiamo buttarli via.
Siamo costretti a essere cauti, come animali braccati.
Molte sedie in ufficio si sono svuotate: ridimensionamento di organico.
Te l’ho nascosto finché ho potuto, poi mi hai detto a mezza voce che accade lo stesso anche da te.
Ci resta solo da stringere i denti, hai ragione.
No, non prenderò quel sonnifero.
Voglio tornare alla festa con la frutta, il sidro, la casa con l’affresco, dove ti aspetto.