La fitta del cambiamento

Mi piace quando le cose restano uguali.
Non mi piace il cambiamento.
Le novità mi danno il mal di testa.
 
Con l’arrivo dei nuovi vicini era iniziata quella fitta, in fondo al cranio. La conoscevo bene.
Sapevo che dovevo parlarne con il mio terapista, per aggiustare le dosi. Le dosi sistemano sempre tutto. Avevo un appuntamento, ma dovevo aspettare due giorni.
Quel che vedo, quel che la fitta mi mostra, sono solo manifestazioni del mio problema. Sono il mio problema, non la realtà. E i problemi si risolvono. Aggiustando le dosi.
 
Il gatto dei vicini non aveva due piccole ali d’ombra con cui svolazzava sul balcone. Non aveva neppure tre coppie di occhi dalle pupille nere che si dilatavano nell’osservarmi, giù nel cortile.
Era un gatto. Saltava sulla ringhiera, era agile. Mi guardava perché era curioso.
Aggiustate le dosi sarebbe tornato a essere baffi e pelo e occhi. Due.
 
Il trasloco notturno mi aveva turbato. Ero andato a dormire che l’appartamento al secondo piano, sotto di me, era vuoto e silenzioso. Mi ero svegliato coi rumori dei mobili trascinati.
Da dove erano venuti?
 
Il figlio dei vicini non si dondolava da un ramo del pino, ieri sera. Non si era gettato di sotto afferrando una gazza a mezz’aria lanciando penne ovunque. Non era una mascella tentacolare a tenere il povero uccello inchiodato a terra.
Era il buio a ingannarmi. Il buio e il bisogno di aggiustare le dosi. Aggiustare le dosi l’avrebbe mostrato per quel che era: un ragazzino che giocava.
 
Mi ero sporto dal balcone sentendoli per la prima volta. C’erano le finestre aperte di sotto. C’erano voci. La fitta non era ancora arrivata, avevo poco tempo per presentarmi. Per mostrarmi come un buon vicino.
Scese le scale avevo suonato il campanello.
Avevano aperto in due, i nuovi vicini. Larghi sorrisi bianchi e facce amichevoli. Occhi scuri. Occhi profondi. Occhi predatori. Ecco la fitta.
Poi le presentazioni: un figlio, un gatto, tanta fretta. Normali.
 
La vicina era salita a chiedermi del condominio. Chi ci viveva, chi dava problemi, chi affittava e chi era proprietario.
Sapevo tutto, vivo qua da sempre in fondo.
Era gentile. Mi bastava ignorare le orecchie che colavano verso il basso, come attaccate con la melassa. Di tanto in tanto faceva come per sistemarsi i capelli e le riportava su, ma quelle riprendevano la loro deriva.
Sarebbero rimaste al loro posto. Una volta aggiustate le dosi.
 
Mi avevano stretto la mano. Prima lei, poi lui.
Lui. La sua mano. Piccole lingue sui polpastrelli mi avevano assaggiato. La stretta era durata un attimo di troppo, ma non per valutarmi. Per assaggiarmi.
Chiuso la porta del mio appartamento mi ero accasciato a terra, con la schiena contro il legno.
Li avevo sentiti salire, i passi pesanti di due adulti, il passo strascicato di un ragazzino, le unghie troppo cresciute di un gatto.
Fermi sul pianerottolo di fronte alla mia porta, avevano smesso di respirare. Scomparsi.
Dovevo chiamare il mio terapista, qualcosa non andava.
 
Farsi favori tra vicini è normale, è sano, rinforza il senso di comunità e di supporto. L’avevo imparato, per partecipare al gioco.
I nuovi vicini sono normali, umani, anonimi.
Mi cercano perché sono il primo che hanno conosciuto, anche loro pensano che io sia normale, amichevole.
Le dosi non sono ancora perfette, ma mi impegno.
Vorrei solo che usassero il campanello, anziché bussare alla finestra.