L’anima di Wald

C’è una lunga tradizione, qui dalle mie parti. Rispettarla mi sta costando sudore e fatica. Dopo tre giorni di cammino, siamo giunti davanti alla cittadina. Dietro di me almeno una cinquantina di uomini dagli elmi ammaccati e dagli scudi spezzati.
Quando ci mostriamo alle sentinelle, al chiaror dell’alba, la grossa porta di legno viene aperta.
Mi sfilo l’elmo, lasciando respirare i capelli scompigliati e umidi di sudore. Con un gesto della mano li stacco dalla fronte e do inizio alla sfilata lungo la via centrale, avvertendo il suono ritmico dei passi di tutti i soldati dietro di me.
Attorno a noi si è radunata tutta la cittadina. Bambini, anziani, donne e lavoratori. Alcuni di questi ultimi hanno ancora gli attrezzi in mano. Ci guardano con rassegnazione ma anche col sollievo della fine di una logorante attesa.
Giunti nella piazza centrale, ciascuno dei soldati va in una direzione diversa per adempiere il suo compito. Mi avvicino a una donna e mi faccio indicare la casa di Wald il Biondo.
Mi infilo in un paio di vie, prima di arrivare a una piccola casetta schiacciata da due, ai suoi lati, molto più grandi.
Busso e dopo una breve attesa apre un uomo basso e tarchiato, dai capelli radi e bianchi. Scruta la spada insanguinata, la corazza e infine il mio viso.
Non dice niente. Sospira e mi fa cenno di entrare.
Nella stanza spartana ci sono solo un focolare, un tavolo e delle sedie. Una donna dai capelli grigi e sfilacciati sta spezzettando del pane raffermo. Mi siedo e apro il sacco appeso alla mia cintura, tirandone fuori un panno umido. Lo appoggio sul ripiano e lo spiego, mostrando loro il contenuto: un fiore dai petali rosso accesi.
Sia l’uomo che la moglie hanno gli occhi umidi.
“Ti ringraziamo per quello che hai fatto per noi.”
“Non dovete.”
“Oh, sì invece. Non è affatto scontato” mi dice l’uomo.
La donna si asciuga le lacrime con il palmo della mano.
“Com’è successo?”
Alla domanda diretta provo a rispondere ma la voce fatica a uscirmi dalla bocca.
“Il ragazzo ha combattuto da eroe. Dovreste esserne fieri”.
“Com’è successo?” ripete la madre.
Cerco la forza di ripescare ricordi di cui farei a meno.
“Trafitto alla gola da una spada.”
La donna prende il fiore e lo porta in un vaso posto in un angolo illuminato dalla luce della finestra. Doveva averlo già preparato.
“Ha adempiuto la tradizione, ser. Può ritenersi perdonato” mi dice l’uomo.
Annuisco poco convinto e mi alzo in piedi. Mi congedo e varco la soglia per uscire.
“Ser” mi richiama la donna. Mi volto. “Non è stato lei a uccidere nostro figlio, ma la guerra.”
Sono turbato. Esco mentre da altre case i miei soldati stanno facendo lo stesso.
Perché c’è una tradizione nel mio paese, in cui l’esercito vincitore coglie fiori rossi dal campo di battaglia, fiori che nascono in una notte, abbeverati del sangue dei morti, per consegnarli alle famiglie di chi avevano abbattuto.
Oggi il mio fiore è per l’anima di Wald e di fiori, dopo questo, non intendo coglierne mai più.