
Tito correva nel campo verso suo padre e il vecchio Manlio.
Le pianticelle erano alte e gli sferzavano la faccia. Alle sue spalle crescevano grida e tonfi di zoccoli, insieme al fruscio del miglio schiacciato al galoppo. I razziatori erano tornati.
Suo padre lo afferrò per la mano e insieme scapparono dietro a Manlio.
Tito arricciò il naso. Un sussurro soffiò nelle sue orecchie.
Sbucarono fra le cascine, incrociarono tre paesani e la mamma che per correre si teneva la gonna con le mani.
“Papà!” Tito aveva le orecchie calde e ora gli bruciavano le caviglie. “Papà, lo sento.”
Papà gli mise una mano sulla spalla e si sporse verso Manlio. “Vedrai che bruceranno tutto di nuovo. Hanno le torce.”
“Che li colga la peste.” Manlio ringhiò. “Tieni Tito con te, lontano dalle fiamme. Prendete la chiatta e aspettate in mezzo al fiume, una volta riempiti i loro sacchi i razziatori se ne andranno.”
Un gruppo di cavalieri galoppava nel campo. Due con le torce si fermarono, uno alzò un dito a saggiare il vento.
“Papà.” Tito trattenne il fiato. I due abbassarono le torce sul miglio, spronarono le bestie e alle loro spalle le pianticelle avvamparono.
Tito si grattò forte un orecchio. Papà incontrò i suoi occhi. “Mai.”
Era sempre quella la parola: mai. Mai rispondere al fuoco. Mai essere se stesso.
Tito riprese a correre fra lui e la mamma.
Mai. Mai. Però qualcosa gli pizzicava le caviglie e c’era un sibilo nelle sue orecchie e sillabe, di sicuro parole. Ma quali?
Papà imprecò. La chiatta era affondata e quattro armigeri salivano verso di loro. Avevano torce e lunghi coltelli. Le fiamme sulle loro torce si piegavano, si piegavano verso Tito.
“Papà.”
“Torniamo indietro.” La mamma gli carezzò il viso. “Non lo ascoltare, tesoro, e non rispondere.”
Ricominciarono a correre tutti e tre verso le cascine.
Due cavalieri spuntarono dalla direzione del mulino. Uno di loro puntò contro papà una mazza.
“Dentro!” Il razziatore scosse la mazza indicando la stalla. C’erano altri uomini lì.
Tito si grattò ancora le orecchie.
Seguì la madre fino alla stalla che era piena di persone. Entrarono anche se non c’era davvero posto.
Tito, si trovò schiacciato tra i corpi.
Manlio gridò. “Prendete ciò che volete e andate!”
“I nostri ordini sono altri.” Era lo stesso cavaliere con la mazza.
Tito sgusciò sotto il braccio di suo padre. Stavano chiudendo la porta.
Troppe voci si sovapponevano. “Vi prego. Lasciateci andare. Cosa volete fare?”
Le fiamme ruggirono nelle sue orecchie: Tito, Tito.
Stavano in cima al tetto, volevano scendere da lui.
Gli strilli della gente divennero acuti.
L’odore delle fiamme e del loro banchetto gli colmò le narici.
Mai. Non devi rispondere mai.
Tito tossì. Si mise le mani sulle orecchie. Chiuse gli occhi. Inspirò, ma lo raggiunse l’odore del legno che resisteva al fuoco.
Dovevano uscire di lì, perché tutti tossivano.
Tito aprì gli occhi e si mosse dove nessuno voleva stare, davanti al fuoco, che si arricciò come un’onda senza toccarlo.
“Tito, no!” Il grido si mescolò in timbri diversi. Mamma, papà, Manlio?
Le caviglie smisero di pizzicare. Tito si strinse le mani una nell’altra. Come doveva parlargli? Era la prima volta che rispondeva.
Una cosa semplice era meglio. “Ciao, puoi aprire la porta?”
Le pareti di fuoco, rosse come il tramonto dell’estate, rotolarono ai suoi lati, si divisero, schivarono la gente del villaggio e aggredirono il portone.
La porta cadde: oltre c’erano i volti dei razziatori.
Tito fece un passo fuori. Le fiamme si alzarono in due colonne ai suoi lati.
“Torna da loro.”
Il fuoco si slanciò contro i razziatori.
I razziatori urlarono, quello con la mazza tirò le redini, ma finì a terra. Le fiamme gli artigliarono una gamba. Gridò e fuggì e insieme a lui il resto dei razziatori.
Il fuoco li seguì e si fermò al limitare del campo.
La mamma era uscita dalla stalla. Tito la abbracciò. Papà li raggiunse.
La gente del villaggio cominciò a uscire e si radunò lontano da loro.
Manlio fu l’ultimo. Girava gli occhi sul disastro, i capelli bianchi pieni di cenere.
Un sasso volò oltre di lui e piombò ai piedi di Tito. Un altro lo colpì al braccio.
Mai. Papà aveva detto di non mostrare mai quello che sapeva fare. Manlio non voleva nemmeno che se ne parlasse. Saltava una generazione, diceva, era una disgrazia che sarebbe passata.
Uno strillo isterico si levò dal gruppo. “Ora verranno con le lance e gli archi.”
Manlio ringhiò. “Smettetela.” Si lasciò dietro i paesani e li raggiunse. “Ve ne dovete andare.”
Mamma alzò un dito tremante. “Tito ci ha salvati tutti.”
Quello annuì. “Per questo vi lasciamo andare via. Ma non tornate più qui.”
Tito strizzò gli occhi appesantiti, era sazio come dopo una festa. Il fuoco si stava spegnendo al bordo del campo e gli chiacchierava nelle orecchie: aveva sonno.
La gente li fissava in silenzio.
Papà lo prese in braccio. Le sue braccia erano forti e sapevano un po’ di sudore e un po’ di fumo.
“Ma io li ho salvati” balbettò Tito e la voce gli uscì come un mugolio infantile.
Papà lo strinse.
Il fuoco si spense e smise di sussurrare.