
Era seduto sul divano del salotto. Le gambe raccolte al busto, la testa china sul petto.
Fuori dalla finestra il sole iniziava a cercare il giusto giaciglio tra i tetti spioventi, a V capovolta, delle case del vicinato. Le dita storte e scure del tiglio del giardino, rese ossute dall’inverno, tessevano trame di ombre sul muro alle sue spalle.
Lui non si voltò. Sapeva che, altrimenti, sarebbe morto di paura.
Che stupido, non era più così piccolo da dover temere gli orrori del buio. Eppure, era più forte di lui. Quando era solo tutto sembrava più grande, più spaventoso, più difficile. E lui non aveva più la forza di alzare la voce per ricordare a chicchesia che in quella casa era meglio non fare strani scherzi.
Inspirò a fondo, poi espirò piano, portando fuori dal petto un piccolo sibilo rauco che si spense a contatto con l’aria.
Quanto tempo era passato da quando si era svegliato? Un’eternità. Eppure il tempo era un concetto così effimero… glielo sentiva ripetere spesso.
La notte, quando fuori i lampioni iniziavano a spegnersi e a lasciare che il sole tornasse l’unica luce ad illuminare il giardino davanti a casa, lei era solita sedersi sulla vecchia poltrona che profumava della sua stessa pelle. I capelli sciolti sulle spalle e gli occhi scuri, dal taglio affilato, che scrutavano il bordo della tazza piena di acqua bollente, erba e fiori che teneva tra le mani.
Alcune volte, lei gli sorrideva. Accadeva quando si ricordava di avere la forza di farlo.
“Sai,” appena sveglia aveva la voce bassa, resa rauca dal sonno interrotto prematuramente. “il tempo è solo un concetto. Io credo di aver sbagliato tutto, ma in realtà non è così. Ognuno ha il suo percorso. Dovremmo semplicemente smettere di pensare alla vita come una corsa ad ostacoli. Io dovrei smettere di pensare alla vita come ad una corsa ad ostacoli e imparare a lasciar andare…”
Aveva ragione. Lei aveva sempre ragione. E se esistevano più ragioni al mondo, allora le aveva tutte. Eppure, questo lei non riusciva a capirlo.
Aveva passato la sua vita a osservarla, a sedere in silenzio al suo fianco mentre piangeva con la testa sulle ginocchia e le braccia riverse per terra. E non rimpiangeva nulla. Oh no. Viveva per quei momenti come per quelli in cui, forte di un’energia tutta nuova, lei trovava la forza di uscire e fare qualcosa di diverso rispetto ai soliti giretti intorno all’isolato.
In quelle occasioni andavano sempre al parco, perché era lì che potevano correre, ridere e poi buttarsi sull’erba. La pancia all’aria, la carezza del sole sul viso…
Qualcuno, all’esterno, urlò un avvertimento confuso ad una macchina che stava parcheggiando. Non capì niente di quello che era stato detto, ma colse l’occasione di essersi ripreso dai suoi pensieri per alzarsi e stiracchiare un po’ il corpo vecchio e dolente.
Sbadigliò, poi si trascinò in cucina facendo attenzione a non sbattere da nessuna parte. Niente da mangiare, come al solito. Avrebbe dovuto aspettare ancora.
Dall’esterno non arrivava più alcuna luce se non quella di un lampione distante. La casa era così vuota senza di lei. Tutto sembrava più grande, più spaventoso, più difficile… più pesante.
Eppure, tutto cambiava in un attimo quando la serratura di casa scattava al primo giro di chiavi, poi al secondo.
«Byron?» Una luce si accese nel corridoio, illuminando la figura di una ragazza chiusa in un cappotto pesante. «Eccolo il mio amore!» Strillò lei, lasciandosi cadere a terra e buttando le braccia in avanti.
In un istante, l’abbraccio.
Aveva passato la sua vita a osservarla, ad ascoltarla mentre chiedeva al vento quale fosse il loro posto nel mondo. Poi, un giorno, lei aveva smesso di fare quella domanda. E da allora aveva iniziato a sorridere più spesso. Piano, quasi timidamente, come se stesse riscoprendo il modo di farlo davvero.
Non sapeva bene cosa fosse cambiato, ma una cosa la sapeva: per lei, adesso, la vita era più leggera. Proprio come accadeva a lui quando la vedeva tornare a casa.
Scodinzolò. Era felice.