
Mi inginocchio sul cadavere e lo scrollo. Niente topi. Gli frugo in tasca. «Nonno, questo chi è?»
«Tedesco. L’uniforme è grigia. Sono facili da riconoscere.» Con uno strattone gli sfila lo stivale e lo mette nel sacco. «Trovato niente?»
Scuoto la testa. Qui c’è già passato qualcuno. Mi alzo e vado al prossimo, il fango ghiacciato scricchiola sotto le scarpe. Non abbiamo da mangiare, ma cuoio e vestiti non mancano.
Passo di fianco a una buca, aguzzo la vista. Una sagoma sporge dal fango!
«Nonno, guarda! Scommetto che quello non l’ha visto nessuno.»
Mi avvicino al morto, la sua uniforme è dello stesso colore del terriccio che lo ricopre. Gli mollo un paio di calci, qualcosa schizza fuori dalla manica e zampetta via.
Sgancio la bisaccia che porta alla cintura. La apro, il pacco di gallette è ancora intatto. Sorrido e lo mostro al nonno.
«Bravo Lzek!»
«Questo è russo, vero? Ha l’uniforme marrone.»
«Esatto.»
«I russi sono nostri amici?»
Nonno indica i corpi sparpagliati attorno a noi. Alcuni sono ancora avvinghiati tra loro, con pugnali e baionette.
«Noi polacchi non abbiamo amici. Solo cadaveri. Alcuni da piangere, altri da derubare.»
Uno spillo di freddo mi punge un orecchio. Guardo il cielo bianco, sta per nevicare.
Bene. Russi o tedeschi, i morti si vedono meglio se c’è la neve.