
Io, principessa Liriana di Zancle, al tramonto sarò morta. Che si struggano le mie serve e il mio caro padre, che pianga tutto il popolo. E che pure la terra mi faccia torto, facendosi pietra dura cosicché non si possa scavare per seppellire le mie spoglie. Che mi lascino imputridire in pubblica piazza, che tutti vedano e sappiano che noi principesse, se lasciate al sole, marciamo come ogni altro: in solitudine, presto dimenticate. Come la mamma.
C’è un piccolo rigagnolo dietro il castello. Un boschetto di pini, il manto di foglie pestate dagli animali. Sono sola. Io e il mio coltello, siamo soli.
È successo una notte. Un lieve fastidio, una serva un po’ troppo preoccupata, il rosso del sangue nel sogno. La sensazione di umido all’alba, i grumi, scuri come il lungo tappeto nella sala del trono, a macchiare il letto.
Sono qui, la gonna dell’abito nei pugni e le lacrime raccolte dal ruscello. La serena limpidezza dell’acqua tra i miei piedi è presto turbata dalla mia presenza. Chiudo gli occhi e il rosso del sogno torna: scivola, scorre. Ah, ecco, lungo la coscia. Solletica, come le carezze di mamma. Il fischiettare degli uccelli, l’odore di muschio. Dalla coscia scivola, pian piano, sino al ginocchio. Si stacca dal mio corpo, il sangue, e gocciola nel fiume. Sporco. Sporco lui e sporca io. Bello essere bambine, pulite e detestate. Orrido svegliarsi donne, sporche e desirate.
Ho il coltello poggiato sul cuore. Oggi al tramonto, io morirò.
«Ah, ferma lì! Che state facennu?»
Quando mi volto vedo una sorta d’uomo, piccolo e tutto schiacciato come se ci fosse una pietra sulla sua schiena. Ma la pietra non c’è, ci sono solo i suoi occhi spalancati.
«Signorina, ferma, che vi tagghjati con quella cosa.»
Mi prende il coltello dalle mani. Non chiede permesso. Non si inchina. Lo prende, lo lancia tra le foglie e l’erbetta.
«Mi volevo ammazzare.»
«Eh, sì, l’avìa capito.» Si gratta la testa. «Mi pare ‘na cosa scema, a me. Voi siti bella, signorina. Meraviglia. Un peccato, si dici dalle mie parti.»
Un peccato. Non credo che Dio mi stia guardando, si sarà già cavato gli occhi quando mio padre ha lasciato morire la mamma.
L’uomo resta a fissare il coltello. Se provo a muovermi, lui si muove. È già il tramonto, l’ultimo sole brilla rosso come il mio sangue, e io sono ancora viva.
«Voi siti ‘mportante, signorina?»
«Sono la tua principessa.»
«Oh, bimbo Gesù, io non l’avìa caputu.»
«Perché non vuoi che mi uccida? Noi reali vi facciamo schifo.»
«Babbarìe.» Mi prende le mani. Senza permesso. «La vita è bella, principessa. C’è u suli, a luna. E l’erba, eh, puru l’erba è bella, tuttî cosi. Tuttî cosi su belli. Se v’ammazzati, nê viditi più.»
Proprio così. Non vedrò più. Era il mio ultimo tramonto, l’ultimo sole prima di tornare da mamma. E questo pezzente me lo ha impedito.
«Che ne sarà di me, ora che devo vivere?»
«Nô sacciu. Oggi è oggi. Dumani è dumani.»