
Il vento fa sbattere forte il tessuto della tenda. Mi irrita, devo muovermi sulla sedia.
«Devi stare fermo, maledizione. Immagina se te lo dovessi mettere male.» La voce di Miguel è ferma come le sue mani, mentre collega il filo dall’impianto alla tuta, applica il cerotto invisibile.
Sono già vestito per la gara. La tuta è stretta, viscida, sempre spiacevole da indossare. Ma poi è come una guaina che facilita i movimenti. Sopra, mi infilo la Maglia Rosa.
«Pensa a fare il tuo lavoro, cazzo. Se siamo arrivati a questo punto non è di certo colpa mia.» Rispondo acido.
Sei stato tu, bastardo. Mi hai obbligato a impiantare il computer sottocutaneo, dietro all’orecchio destro. Altrimenti avremmo perso gli sponsor, mi hai detto, proprio prima dell’inizio del Giro.
Mi ripeto che Koen non avrebbe mai accettato. È un vero sportivo, l’immagine perfetta del Giro Pulito, come lo chiamano i media. Quest’anno vogliono rilanciare il nostro sport, messo alla gogna dagli scandali del doping. Il senso di colpa con cui convivo mi mozza il respiro.
Il familiare ronzio del collegamento anticipa la voce di Eddy.
«Sono pronto, Marco.»
«Prima salita, pendenza lieve. Parametri normali. Rapporto morbido e rimani nel gruppo. Vincenzo può partire.» Mi dà le indicazioni. Siamo in un gruppo fitto fra Bolzano e Merano.
Sono circondato dalla squadra, davanti a me vedo Koen: indossa la Maglia Ciclamino e il solito casco giallo, anche lui in mezzo ai suoi. Faccio cenno a Vincenzo, il più giovane: parte.
In breve, un gruppetto lo segue, si stacca. Koen si volta indietro, forse controlla dove sono.
Le nuvole coprono la cima delle montagne.
Tornante numero uno. Piove forte.
Mi trovo a metà gruppo. Koen è davanti, sta andando come un gregario in fuga. Troppo veloce.
Il senso di colpa mi soffoca, ma non posso permettergli di allontanarsi. Esito un’ultima volta, poi decido.
«Eddy, lo vedo. Dammi l’andatura.»
Il computer non risponde subito: starà calcolando i miei parametri vitali, trasmessi dalle migliaia di sensori intrecciati nel tessuto della tuta, mettendoli in relazione con la posizione degli altri, trasmessa dalla Centrale.
Forse è sorpreso, in fondo è la prima volta che gli chiedo aiuto.
Fino ad ora l’ho tollerato, passando ore in sella a sentire i suoi consigli. L’ho ignorato di proposito, irritato dai grossolani errori dell’inizio, ma trovandolo sempre più preciso. Miguel diceva che impara a ogni allenamento. A un certo punto l’ha chiamata simbiosi: gli ho riso in faccia.
«Accelera. Il battito è a posto. Qui in salita sei più veloce. Si trova avanti, di mezzo chilometro, è ora di riprenderlo.»
Mi alzo sui pedali per superare un piccolo gruppo, spero di sfogare rabbia e frustrazione con la fatica. Koen non lo avrebbe mai fatto, neanche in una tappa decisiva come quella di oggi.
Al ventiduesimo tornante siamo in fuga solo noi due.
Koen mi sorride quando ci alterniamo, stando a ruota. Lo fa da sempre, sappiamo tutto l’uno dell’altro, come fratelli. Tutto, tranne Eddy.
La pioggia cade mista a neve, a volte mi entra in bocca. Ancora quella stretta alla gola, non appena si fa sentire un’altra volta.
«Avete staccato tutti di quattro chilometri, Marco. Continua così: ritmo costante.»
Trentaduesimo tornante.
Sono curvo sui pedali, il fiato corto, le gambe che bruciano.
«Marco, rallenta, non reggerai per molto.»
«Dov’è?»
«Trecento metri indietro. Sta recuperando.»
Eddy mi ha fatto partire: in pochi secondi gli ho dato mezzo chilometro. Ma ora mi sta tornando sotto.
Grugnisco, spingo, ignoro l’avvertimento. Uno stupido computer non mi può fermare.
Quarantesimo tornante. Dodici chilometri. Nevica, ma non ci faccio caso. Alzarsi sui pedali è una tortura.
Koen è davanti, va come un diavolo.
«Sei nella zona rossa, Marco, non puoi continuare così.» Un’esitazione. «Se lo desideri, posso prendere il controllo.»
«Che diavolo stai dicendo?»
«La tuta è un modello di ultima generazione, non trasmette solo dati. Può anche aiutarti a pedalare.»
Nessuno mi aveva informato di questo.
Ma accetto: non mi importa più di Koen, del Giro Pulito, neanche che mi scoprano. Devo vincere.
Ultimo tornante.
Siamo appaiati.
È in un bagno di sudore, lo sguardo preoccupato, i suoi muscoli scattano, ma non molla.
Salto in piedi, la fatica è quasi scomparsa, come se fossi appena partito. Vado a un ritmo impossibile, dopo ventisette chilometri di salita.
Gli ultimi due chilometri.
Sprint finale, testa a testa.
«Sei al limite, Marco. Più di così non è possibile. Solo tu puoi…»
Quasi non lo sento. La tuta stringe, strizza ogni goccia di energia dalle mie gambe martoriate.
A duecento metri la bici scarta, rimango in piedi per miracolo sul fondo pieno di neve. Come se mi fossi addormentato alla guida.
Continuo a pedalare, ma senza convinzione. Devo portare a casa la pelle.
Koen è davanti per pochi metri. Taglia il traguardo, alza le braccia. Ho perso.
Nel movimento qualcosa nel suo collo si muove. Un lembo di pelle dietro all’orecchio destro si è sollevato, lascia intravedere un filo color carne.