Un papà

Un papà non deve piangere. Stringo il volante, forte. Lo faccio fino a farmi male. C’è traffico e questo ci farà perdere tempo. Renderà le cose più difficili. Quanto potrò resistere senza cedere? Do uno sguardo a mia moglie. Sta guardando fuori dal finestrino. Starà pensando a come faremo con un lavoro solo. Forse sta facendo due conti con quella casa in affitto che abbiamo visto ieri.
Guardo lo specchietto retrovisore. La piccola dorme sul seggiolino. L’altra sta giocando con due bambole.
«Siamo in ritardo» dice mia moglie, accorgendosi dell’orario sotto lo stereo: le undici e mezza. Di quel passo arriveremo tardi per il pranzo dai miei genitori. Mia mamma me lo farà pesare. Mi fa pesare sempre tutto.
«Più veloce di così non posso.»
Starà pensando anche lei a quello che ci dirà. Non sopporta mia mamma. Troppo critica, troppo invadente, troppo assillante con le bambine. Ma io che posso farci? Non posso mica dirle sempre di no per ogni invito. Almeno per il ponte di ferragosto…
«Papà, andiamo a Gardaland prima che inizi la scuola?»
Non so come le sia saltato in mente. Gardaland… Prima il prezzo del biglietto, poi il saltafila e infine dolciumi, cappellini, palloncini… Quanto mi costerebbe? Non so neanche se riusciamo a risparmiare abbastanza per il riscaldamento del prossimo inverno.
La guardo di nuovo dallo specchietto. Mi sorride. Guardo sua sorella che dorme. Poi guardo mia moglie. Perché non le risponde lei? Forse ce l’ha con me per qualcosa. Il pranzo di mia madre? Il fatto che non mi decida a cambiare lavoro? O è per la casa nuova? Perché non capisce che il cambiamento non è così facile? Che altro lavoro può fare uno come me, superati i quarant’anni e senza competenze? Chi mi prenderebbe? Che futuro potrei dare loro? Che futuro posso dare loro adesso? Dio, non ce la posso fare. Stringo il volante, un papà non piange. Non può farlo. Sorrido a mia figlia. «Forse per Halloween.»
Non mi sembra convinta, ha fatto una smorfia. Me lo chiede da quattro anni, da quando ha iniziato a parlare bene. Non l’ho mai portata. Se per questo, neanche all’acquario di Genova che è a due passi. Mi odia, lo so. Lo vedo, quando preferisce gli abbracci di sua mamma ai miei. Quando torno dal lavoro e non viene a baciarmi. Lo percepisco, lo so. E lo farà anche la più piccola, quando avrà più comprensione di quello che la circonda, di quello che è suo papà. Gli zigomi hanno un piccolo spasmo, ma resisto. Non posso mollare. Trattengo il respiro, cerco di recuperare un ricordo felice, per non crollare. Guardo l’orario e sono solo le undici e trentaquattro, anche se mi sembra sia passata un’eternità. Quanto manca? Quanto manca, santo cielo? Una lacrima mi scende da un occhio.
«Papà, questo è un ponte?»
Ne scende una seconda. Non posso. Le labbra vibrano.
«Sì, tesoro. Siamo sul ponte Morandi.»
La voce è rauca, trema. Mi scende una seconda lacrima.
«Papà, guarda!»
La macchina accanto alla nostra inchioda, quella davanti sparisce.
Stringo il volante. Mi metto a piangere. Crollo.