
La rete tesa davanti agli occhi di Mimì non ondeggiava: era immobile e ferma, proprio come le sue gambe. Aveva le dita fredde, indice e anulare fasciati; pure il mignolino aveva una piccola fasciatura rosa con tanto di cuoricino.
«Ragazze, dateci dentro, su!» l’allenatore si scompigliò i capelli e fissò una ad una le giocatrici. «Mimì, salta. Salta, cazzo. Vola! Vola e schiaccia.»
«Sì, signore.»
«Brava. Dai, in campo!» e indicò il pavimento consumato.
Mimì respirò e osservò le luci accecanti della palestra nella periferia di Catania. Dall’altro lato del campo entrarono le sfidanti con la maglia del Palermo.
Guardò la propria squadra, infine gli spalti vuoti. «Lia non c’è?»
«È in ospedale.»
«Lo so, ma pensavo che la lasciassero uscire. Almeno oggi!»
«Che t’importa? Pensa a giocare, che già senza di lei siamo una in meno.»
Lei accarezzò il mignolo, la fasciatura col cuoricino.
Mimì puntò alla reception, salutò la signora Lucia e corse verso l’ascensore. Sfregò le mani sul petto, cercando di riscaldarle, spinse piano la porta della stanza ed entrò. «Ehi.»
«Tesoro, com’è anda—»
«Zitta! Ci sentono.»
«Non c’è nessuno, scema. Vieni qui.»
«Ho perso.»
«Embè? Lo hai detto lo stesso alle altre, no? La cosa della scommessa era una scusa.»
Il cuore accelerò. Nascose la testa tra le braccia di Lia e non aprì bocca. Voleva solo che il respiro si quietasse, che il mondo smettesse di turbinare.
«Non hai detto niente, vero Mimì?»
«Scusa.»
«Ma che ti costa!?» Lia cercò di afferrarla, ma a Mimì bastò fare un passo indietro. «Torna qua! Fatti picchiare!»
Mimì urtò col tallone la sedia a rotelle. «Glielo dirò la prossima volta, di noi. Lo prometto. Non voglio che Gina lo senta, se lo dice a mio padre gli fa venire un altro infarto.»
«Io domani vado in America.»
«In che senso?»
«Mamma ha trovato un dottore a Seattle. Possono guarirmi, forse.»
«E che ne sarà di noi?» la fissò. Le sembrò un mostro, con occhi grossi e neri, capelli sfibrati e lunghi, denti digrignati e gengive rossissime. «Lo sai che ti amo, ma devo anche pensare a papà.»
«Avrai tutto il tempo del mondo per tuo padre e la pallavolo.»
«Lia…»
«Infermiera! Voglio prendere aria!»
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In anni di viaggi, Mimì non si era mai abituata ai cambi di temperatura. Sempre appresso alla squadra a vincere e perdere, sino in America.
«Piccola? Sei sicura?»
Si girò verso Pietro. Poggiò la testa sul suo petto e sospirò. «Pensi che la battiamo, l’America?»
«Quest’anno c’è una giocatrice nuova.»
«Chi?»
«Non hai letto l’email di mio padre?»
Mimì arricciò una ciocca col dito, fissò l’orizzonte, i palazzi altissimi così simili a una rete da pallavolo strappata. «Non leggo mai le email di tuo padre, me lo puoi sempre dire tu se c’è qualcosa che non va.»
Lo stadio era strapieno. Mimì studiò gli spettatori uno a uno, asciugò le mani sudate sul pantaloncino della tuta e si avvicinò alla rete, rigida e nervosa quanto lei.
Le bastava vincere, saltare e volare. Una schiacciata delle sue, come contro la Polonia. Il ricordo delle vittorie aveva però un sapore amaro; le coppe condivise con la squadra e l’allenatore erano fotografie che sbiadivano in fretta, così come il volto di Pietro tra le lenzuola.
Mimì aggiustò i calzettoni, pinzò la rete.
Un’ombra dall’altro lato: «Bella fasciatura su quel mignolo. Sei alle elementari?»
«Lia.»
«Ciao, Mimì.»
«Sei guarita. Giochi davvero per l’America.»
Lia annuì.
«Mi sei mancata da morire!»
«Sarà per questo che hai sposato il figlio dell’allenatore, vero?»
«Non—»
«Vuoi fare una scommessa, Mimì? Come da ragazze.» Lia si massaggiò la spalla e sbirciò gli spalti. «Se mi batterai correrò a baciarti davanti a tutti, proprio come avevi promesso di fare tu. Dovrai sudare, però: il muro americano è forte, insuperabile.»
Mimì sfiorò la fasciatura, il cuore rosa sbiadito, mezzo strappato. Sorrise appena e le strinse la mano.