Voglio morire felice

Diciotto mesi, due anni al massimo.
Non mi aspettavo certo di uscire dal reparto di oncologia con una scadenza. Che poi, come fanno a essere così sicuri? Come fai a dirmi quando morirò? E se fossi proprio io quello che stravolge tutte le statistiche? Del resto ha detto che si può provare l’intervento. C’è il due percento di successo ma si può tentare.
Il corridoio che porta all’ascensore è un via vai di camici bianchi e verdi che si mescolano tra risate e ammiccamenti, ignari della sentenza che mi pesa sulla schiena. Un’infermiera piuttosto giovane mi regala un’occhiata verde smeraldo. Sono un uomo ancora piacente. Però morirò presto.
Diciotto mesi, due anni al massimo. Ma piaccio alle infermiere.
Prendo il telefono che da un bel po’ non smette di vibrare. Una notifica dietro l’altra. Sono pure un uomo circondato da affetti e attenzioni, ma a me interessa solo lei. Devo sentirla.
Mi confondo tra stetoscopi e zoccoli verdi e chiudo gli occhi per godere di tutte quelle giovani risate. Una vita davanti. Statistiche permettendo.
Un’altra notifica mi vibra in tasca. Le porte si aprono e seguo medici e infermieri. Loro si fermano al bar, io proseguo verso il parcheggio. Prendo il telefono e la chiamo.
«Ehi, allora?».
Non riesco a dirglielo, non posso. Non così. Dieci anni insieme meritano ben altra fine. Sono i miei ultimi diciotto mesi, i miei ultimi quasi due anni e merito di scegliere.
Non spiccico parola, ma devo dirle qualcosa.
Un tizio con un palloncino azzurro con su scritto “It’s a boy!” mi passa accanto sorridente.
Cambia tutto amico mio, vedrai. Beh, cambierà anche per me.
«Amore, dimmi qualcosa, ti prego».
La sua voce mi accarezza e mi ridà fiducia. Posso farcela, cazzo.
La risata della piccola Sofia spezza il silenzio. Le immagino insieme sul divano, la mia Clara e la sua bambina.
Ho le lacrime pronte a uscire.
«Ti dico che ti amo, da impazzire».
Una stretta forte al braccio mi fa sussultare. Mi volto di scatto.
Il mio figliastro.
«Babbo! Allora? Mi dici che ti ha detto?». Dà un’occhiata veloce al telefono.
«Con chi parli?».
Schiaccio il tasto rosso e metto in tasca il cellulare.
«Niente, ascoltavo un vocale». Lo accarezzo sulla guancia, anche se non lo sopporta. Quanto è cresciuto. «Tutto bene tesoro, nessuna recidiva».
«Bene. Dai, sali in macchina che andiamo a dirlo alla mamma. Se vuoi, naturalmente».
Ma che dice? Ha un tono strano.
Si mette alla guida e si allaccia la cintura, il sorriso che prima lo illuminava si è già spento. Non un abbraccio, nessuna manifestazione eccessiva. Fermo, equilibrato e quadrato. Come sua madre.
Digito un messaggio rapido per tranquillizzare Clara e salgo in auto. Questa storia finirà presto. Basta sotterfugi, basta bugie.
Prima che la macchina parta faccio in tempo a scorgere la bella infermiera di prima che mi saluta. E sembra pure che stia ammiccando. Sì, ce la posso fare. Il coraggio dovrà pur essere da qualche parte.
La mia vita forse sta per finire ma non voglio farlo continuando a mentire, a nascondere e a prendere in giro una donna che merita di essere felice.
Dalla radio il buon Tiziano Ferro mi avverte che arriverà la fine ma non sarà la fine e allora cosa mi manca?
«Babbo, richiamala e finisci la telefonata di prima».
Il cuore accelera. Lo guardo e sento i suoi occhi scavarmi dentro. Finalmente.
«Di chi parli scusa?».
«Babbino caro, ho ventitré anni e non sono né cieco né sordo. Andavo alle medie quando ti sentivi con quella tua carissima amica e ne avevo diciotto quando ti è venuta a trovare all’ospedale». La sensazione di leggerezza e libertà si fa spazio dentro di me.
«Ti ho visto piangere e non mi bevo la storia del tutto bene. Credo sia l’ora di smettere di fare il coglione, non pensi? Non farmi intervenire, per favore. Anche la mamma sa tutto ma non vuole perderti».
Ricatti affettivi. Di nuovo.
La morsa allo stomaco, la stessa che mi ha sempre fregato, torna a farsi prepotente.
Ha ragione, non posso continuare così.
Non dico niente e mando un messaggio a lei. Non possiamo vederci stasera.
La macchina imbocca il vialetto e oltrepassa il cancello. Jackie scodinzola e si precipita verso di noi.
La felicità ha un prezzo troppo alto. Tutto questo non posso perderlo.
Il telefono vibra ancora. Lei starà impazzendo dalla voglia di sentirmi.
Mi manca.
La felicità non è in vendita. È un dono da non riciclare.
Non posso perderla.
Ci fermiamo in modo brusco. Mi giro verso di lui e lo sorprendo a fissarmi con uno sguardo severo.
I suoi occhi si spostano e li seguo. Mi volto e la vedo sulla porta.
Madre e figlio si scambiano uno sguardo di intesa. Sorridono, sembrano sereni. Sanno che sono malato ma mi hanno in pugno.
Mi avvicino a lei e scopro la verità dentro di me, quella che non voglio più negare.
Morirò con la donna che mi ha reso felice.
Morirò con l’unica donna che mi ha reso padre.
Non lo farò continuando a crescere un figlio non mio.
Mi fermo, le sorrido e alzo la mano per salutarla.
Mi volto e accelero il passo. Verso Clara.
Verso mia figlia.
Voglio morire felice.
Voglio vivere la felicità.