Il racconto che ha dato il via al tutto, qui potete trovare la genesi di ANGELIZE di Aislinn!
“Sparkling angel
I believe
You are my saviour
In my time of need”
Within Temptation – Angels
Nath si appoggiò al muro nel tentativo di tenerlo fermo: continuava a vorticare.
Ecco. Ce la stava facendo. Nonostante il caldo soffocante, la saliva acida in gola e gli occhi che non riuscivano ad accordarsi sulla direzione da fissare, ora il mondo era immobile. Tutto sotto controllo.
Poi si piegò in avanti e vomitò.
Non aveva avuto molta scelta: il suo stomaco aveva deciso che quattro Cuba Libre erano un po’ troppi per assorbirli in meno di un’ora, anche con l’aiuto della pizza mangiata prima di scoprire che Ylenia non sarebbe venuta a trovarlo, quella sera, non avrebbe portato i depliant dell’agenzia di viaggi, non avrebbe dormito con lui. In effetti, probabile che non l’avrebbe nemmeno più vista. Non aveva sopportato di guardarlo in faccia nemmeno mentre lo lasciava, preferendo un messaggio in segreteria. Difficile che avrebbe avuto ripensamenti, dal tono così definitivo che aveva usato.
Stronza vigliacca. Se non stavi bene con me, potevi dirlo prima che iniziassimo a parlare di matrimonio. «Ho i miei motivi»? E come si chiama il Signor Motivo?
Gli era sembrato saggio uscire, o avrebbe continuato a riascoltare il breve, brevissimo messaggio di lei fino a inciderselo nel cervello. Ma era fregato, lo aveva già imparato a memoria, pause a effetto e inflessioni cariche di gravità comprese. Continuava a sentirlo in testa, mentre guidava fino a un pub in periferia, quello dov’erano finiti per caso una sera e che a Ylenia non piaceva. Era sicuro che i Cuba Libre lo avrebbero distratto. Magari, dopo un paio, sarebbe riuscito addirittura a trovare un lato positivo nell’essere stato piantato.
Be’, non aveva funzionato. In compenso ora sentiva in bocca un sapore aspro e viscido e rimasugli di cibo e…
Vomitò di nuovo, lo stomaco contratto. Peggio che dopo gli addominali in palestra: aveva male dentro.
«Stronza.»
Nath si tirò su, barcollò più in là e appoggiò la schiena contro il muro posteriore del locale. Dalla finestrella sopra di lui si spandeva il puzzo dell’olio usato per le patatine fritte. Premette le dita sulla bocca per reprimere un altro conato.
Quando il suo respiro fu più regolare, passò sul viso il dorso della mano – adesso il caldo dentro faceva a pugni con il freddo di febbraio – e strofinò gli occhi umidi. Lacrime dovute agli sforzi del fisico, nient’altro. Lui non piangeva mai. Sei emotivamente sotto vuoto, gli aveva detto una volta Ylenia. La Stronza.
«Serve una mano?»
Nath tirò su col naso e cercò di mettere a fuoco la persona che gli aveva parlato. All’angolo del vicolo, sotto un lampione, c’era un ragazzo qualsiasi – vent’anni, forse, felpa grigia, jeans e capelli corti. Uno spot della normalità.
«No, grazie. Ormai ho già fatto da solo.»
Il ragazzo si avvicinò di qualche passo, tirando una boccata di sigaretta. «Serata di merda, eh?»
«Già.» Ancora una volta Nath asciugò il sudore freddo e le lacrime bollenti. «Possiamo definirla così.»
«Secondo me, il tuo errore è stato bere da solo.» Il ragazzo sorrideva comprensivo, anche se con una scintilla divertita negli occhi. «In due si parla e l’alcool fa meno effetto.»
«Non conosco nessuno in questa città.» Eh, già. Non era praticamente mai uscito senza la sua ormai ex ragazza, da quando si era trasferito lì per lei. E gli amici di Ylenia erano insopportabili. Piuttosto che stare con loro si sarebbe andato a schiantare.
«Be’, adesso conosci me. Gabriele.»
Il tizio buttò la sigaretta e tese la mano. Lui la strinse: non si sentiva in grado di rifiutare. «Nath.»
Di solito un tipo così lo avrebbe mandato a cagare perché non si faceva i fatti suoi, ma quella sera che importava? In fondo pareva gentile.
Ancora lo stomaco gli si contorceva. Meglio cercare di anestetizzarlo un altro po’.
«Chiodo scaccia chiodo,» disse Gabriele, come se gli avesse letto nel pensiero. «Dai, rientriamo. Bevi, sfogati e domani sarai pronto a spaccare il mondo.»
E aveva bevuto. E aveva parlato. Fino alla chiusura, seduto con il ragazzo a un tavolo nell’angolo. Gabriele lo ascoltava senza quasi sbattere le palpebre, senza mai voltarsi o agitarsi sulla panca o guardare altrove.
«Non voglio annoiarti con i miei casini» aveva biascicato Nath, a un certo punto – una lontana parte di lui, quasi del tutto messa a nanna dal rum, lo aveva rimproverato per come si stava comportando. Non sapeva quanti bicchieri avesse svuotato, il cameriere ritirava quelli sporchi ogni volta che portava quelli pieni.
«Nessun problema. Se posso dare una mano, volentieri! Tanto ero solo, stasera.»
Allora Gabriele aveva iniziato a intervenire nel suo fiume di lamenti sulla solitudine e su tutto quello che aveva mollato per seguire lei e così via. A dargli consigli. A spronarlo a reagire. «La ami o no?»
«Non sho.»
«Allora scoprilo» aveva detto, pagando l’ultima ordinazione. Non aveva bevuto niente, Gabriele, ma per questo giro si era concesso un whisky ambrato. «Va’ da lei, fatti aprire, guardala in faccia. Secondo me lo capirai. E allora saprai cosa fare.»
«Giusto!»
Avevano brindato, buttando giù i bicchierini d’un fiato. Quando uscirono, Gabriele lo sorresse mentre incespicava fino all’auto.
«Grazie.» Nath avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma non gli veniva in mente niente. Tastò le tasche in cerca delle chiavi. «Shei un amico.»
«Di nulla.» Gabriele infilò due dita nel taschino della sua giacca di jeans, estrasse il mazzo con il portachiavi di Snoopy e glielo porse. «È un piacere aiutare le persone. Corri da lei!»
E il suo sguardo era così entusiasta, così elettrico, che lui sedette al posto di guida, dopo due o tre tentativi riuscì a infilare le chiavi, ricordò di chiudere la portiera e partì sgommando.
Arrivo!
«Se stato un bel coglione, Nath! Potevi aspettare me, no?»
Lui si strofinò gli occhi, si alzò dal marciapiede su cui era sdraiato e si mise seduto.
Quello che vedeva non aveva senso.
La sua macchina accartocciata contro un palo della luce, le fiamme, i pompieri, l’ambulanza. A sirene spente.
«Su, forza. Tanto vale che cominci a pensare al futuro.»
Accanto a lui c’era un tipo con i capelli neri. E i contorni sfumati. Luminosi e ondeggianti. Fasci di luce lo avvolgevano, come ali ripiegate intorno al corpo. Il tizio lo afferrò per un braccio – mi sta toccando, ma non lo sento! – e lo tirò in piedi.
«Cosa succede?» balbettò Nath. Tornò a guardare la macchina – quasi segata in due dal lampione, come una torta mezza affettata – poi cercò gli occhi scuri del tizio. «Sei… un angelo?»
«Non sono.» Il tipo sbuffò. «Siamo.»
Nath abbassò lo sguardo.
Anche le sue mani erano chiare e splendenti, nonostante fosse buio, una notte rischiarata solo da aloni giallastri. Anche i suoi vestiti sembravano non avere una forma definita. Nath si voltò per controllare la propria schiena. Anche lui aveva…
«Cosa significa?»
«Significa che quel bastardo di Gabriel è arrivato prima di me, ti ha fatto ubriacare, così gli hai dato retta e sei andato a schiantarti. Complimenti, coglione che guidi sbronzo.»
«Lui… ha cercato di uccidermi?»
«Cercato mi sembra un po’ poco.»
«Oddio.» Nath si guardò intorno in cerca di un qualsiasi appiglio. Doveva essere un incubo. Doveva.
Ma ricordava…
(il fuoco che lo avvolgeva e dilaniava e carbonizzava e)
Strinse le palpebre, le riaprì. Il tizio lo fissava spazientito.
«E tu sei il mio angelo?» balbettò Nath. «Tu volevi salvarmi?»
«Io ti avrei fatto morire in qualche modo meno doloroso.»
«Cosa?!»
«Potessi averlo qui lo strozzerei, Gabriel. Ma chissà dov’è finito» inveì il tipo tutto d’un fiato.
Nath tremava. «Che cosa sei tu?»
Il tizio incrociò le braccia – quelle ali di luce splendenti di un riflesso rossastro, ora, pulsante. «Se credevi che gli angioletti stessero sulla spalla della gente a consigliare il bene, be’, sbagliavi. Forse qualche migliaio di anni fa. Ora che non c’è più il Vecchio, tutto ciò che vogliamo è goderci un corpo. Tu non sai che significa non averlo. Ma lo imparerai presto, stanne certo» aggiunse, cupo.
«Non capisco.» Nath avrebbe voluto dire ho la nausea, non mi sento bene, ma in realtà non era così. Era confuso, gli sembrava di galleggiare – abbassò gli occhi, e attraverso i piedi vide il marciapiede, la cicca che qualcuno aveva buttato – ma non si sentiva male.
Non si sentiva affatto.
«Ti sto spiegando, infatti, testone.» Il tipo lo studiò per qualche istante, un sopracciglio inarcato e la bocca piegata in una smorfia. Scosse la testa, andò verso i resti dell’auto, passando attraverso uno dei poliziotti, e posò le mani sulla lamiera rovente, senza un sussulto, senza una reazione. Si voltò a guardarlo: “Non possiamo mangiare. Né bere. Né scopare. Non possiamo provare niente. Vaghiamo, osserviamo gli stupidi umani. E li invidiamo. Ti sembra così strano che cerchiamo di guadagnarci il diritto di vivere davvero?”
«Continuo a non capire» piagnucolò lui. Si strofinò gli occhi – e sì, mosse le braccia, si tastò il viso, ma era come assistere ai gesti di un attore. Non si toccava. Non avvertiva né calore né freddo, né la pelle né i capelli. Sovrappose le mani davanti a sé: attraverso vedeva il fumo che il vento strappava all’auto, l’affaccendarsi inutile di polizia stradale e infermieri, i ficcanaso scesi in strada ad allungare il collo.
Il tipo dai capelli neri lo fissava quasi con pietà. Gli tornò vicino, mentre il bagliore rosso delle sue ali si affievoliva: «Sveglia, amico. Te l’ho detto, prima inizi a cercare il fesso da fregare, prima ottieni la tua seconda chance.» Abbassò la voce e aggiunse, in un misto di ostilità e rassegnazione: «Se non trovi un bastardo come Gabriel che ti precede.»
Nath indietreggiò. «Ma tu chi sei?»
«Haniel. Ma mi sarei scelto un nome più banale se mi fossi presentato a te prima, ovvio. E tu adesso sei Gabriel, visto che hai preso il suo posto.»
«Come sarebbe?»
«Si sceglie il cretino adatto. Qualcuno manipolabile. È la nostra specialità, no? Suggerire. Consigliare. Dare… spintarelle. Quello si ammazza, in un modo o nell’altro, tu ne approfitti e prendi la sua vita. Cioè, non proprio la sua» sogghignò, accennando alla forma scura che gli infermieri stavano coprendo con un lenzuolo. «Non la vorrebbe nessuno, adesso, la tua. Però ottieni l’energia necessaria a incarnarti in un neonato, da qualche parte nel mondo. Sei vivo e ti godi cibo, emozioni e scopate. E il fesso diventa angelo al tuo posto, perché l’equilibrio va mantenuto. Non possiamo uccidere, non otterremmo il passaggio; ma se qualcuno si sacrifica per te… Anche se non lo fa volontariamente, va bene uguale.»
«È orribile!»
«Per il vecchio te di sicuro. Per noi mica tanto.» Haniel sospirò. «E adesso mi tocca cercare qualcun altro. Tu eri perfetto. Giovane, pieno d’energia e stupido.»
«Smettila!»
Haniel lo squadrò senza scomporsi. «Stupido» ribadì. «Comunque, Gabriel è stato più veloce. Quindi buon divertimento, collega, ovunque tu sia» e mimò un brindisi senza allegria.
«Spero sia finito in qualche inferno a crepare di fame!»
«Dopo il modo in cui si è dato da fare, sarebbe ingiusto» osservò Haniel, serafico.
Nath non sapeva dove posare lo sguardo. «Non posso crederci. E poi Gabriele… Gabriel è stato con me, ha bevuto!»
«Ha capito che era il momento giusto e si è incarnato. Lo possiamo fare, per breve tempo, ma è solo un’illusione. Non ha sentito niente lo stesso. Se si fosse sbagliato e non fosse riuscito a causare la tua morte, avrebbe rischiato di dissolversi. Ma gli è andata bene.» Haniel alzò le spalle: «Perciò, quando deciderai di tentare, assicurati di non fallire.»
«Mai!»
«D’accordo. Ci credo. Buona fortuna.» Haniel si volse e si allontanò, confuso nel bagliore vibrante delle sue ali di luce.
«Ehi! Dove vai?» Haniel era un bastardo che si dispiaceva per la sua morte solo perché non l’aveva causata lui: ma era anche l’unico… essere che lo vedesse, che gli parlasse. Che lo potesse aiutare.
«Non sono mica il tuo angelo custode, bimbo» rispose Haniel, girandosi a guardarlo. «Quelle favole sono stronzate.» Incrociò le braccia e alzò gli occhi al cielo. «D’accordo. Vienimi dietro. Quanto meno due chiacchiere fanno passare il tempo. Spero che tu sia simpatico, se no sai che noia, Gabriel.»
«Non chiamarmi così! Io non potrei, non potrei mai…»
Haniel gli rivolse un sorriso ironico. «Scommettiamo?»
Luca era stufo.
Stufo di passare per lo sfigato, imbranato, debole che eseguiva tutto quello che Marco ordinava e non aveva il coraggio di prendere le proprie decisioni. E se lo faceva, come quando si era rifiutato di saltare da una finestra del palazzo di Ale solo per accogliere una stupida sfida a balconing, passava per codardo e basta.
Tu sei molto maturo, Luca, dicevano le prof. Sei proprio un bravo ragazzo, ribadiva sua madre.
Un bravo ragazzo maturo e solo.
Proseguì verso casa, lungo le vie grigie di smog della periferia industriale, fissandosi le scarpe, le mani cacciate in tasca. Prese a calci un sasso fin quasi in fondo alla strada, quando con un tiro maldestro lo fece finire in un tombino.
Sbuffò, calando ancora di più il berretto sulla fronte.
«Ehi, cos’è quella faccia lunga?»
Luca alzò lo sguardo.
Appoggiato a un lampione – tutto piegato perché un cretino era andato a schiantarcisi qualche mese prima, e infatti restava ancora un mazzo di fiori appoggiato lì accanto –, c’era un tizio più grande di lui, infagottato in un giaccone scuro. Fumava una sigaretta e sembrava non avere nulla da fare.
«Niente.» Luca provò a svicolare. Gli mancava giusto uno stramboide che voleva attaccare bottone. Magari era uno spacciatore.
«Dai! Si vede lontano un miglio che hai qualcosa che non va. E so anche cosa.»
«Come?» Luca lo osservò, diffidente.
«Ma sì, passavo dalla Via Leopardi mentre voi ragazzini strillavate» spiegò il tizio, andandogli dietro. «Eri tu quello che sfottevano, eh? Ho visto bene?»
«Già.»
«Guarda che potresti fargli il culo, a quelli, se solo ci provassi.»
Luca voleva ignorarlo, ma quel ragazzo aveva un sorriso così contagioso, una faccia così gentile e pulita. Non sembrava uno cattivo.
«Gabriele» si presentò il tizio, allungando la mano. Luca la strinse, riflesso condizionato della solita buona educazione. «Coraggio. Puoi cambiare le cose.»
«Sicuro.» Fosse facile! «Fatto sta che io da un balcone non mi ci butto.»
«Saggia scelta» commentò Gabriele.
Per qualche istante osservò il lampione contro cui era rimasto appoggiato a fumare: deglutì, lo sguardo spento, la sigaretta dimenticata tra le dita. Era così consumata che l’estremità accesa era arrivata a sfiorargli le dita, ma lui non sembrava essersene accorto.
Poi abbassò gli occhi sulle mani. Tirò una lunga boccata, e finalmente alzò lo sguardo con un largo sorriso.
«Però, secondo me» gli disse, «hai solo bisogno di qualcuno che ti dia fiducia in te stesso.»
“Sparkling angel
Couldn’t see
Your dark intentions
Your feelings for me”
Within Temptation – Angels