Un sogno cerchiato di blu

Una partita, un sogno, i ricordi, la vita, per sempre bella, per sempre nostra. Direttamente dal Laboratorio, un racconto di Francesco Cascione.

Brusio.
A un’ora dall’inizio di una partita non troverai mai i suoni del tifo ad accoglierti.
Ci sono gli Ultras che provano i cori, ma l’effetto che fanno è lo stesso degli annunci dei treni in stazione con gli altoparlanti sfondati.
Il bello di quei momenti sono gli stati d’animo che si sovrappongono.
Per chi ha visto l’opera a teatro sa che, poco prima di iniziare, l’orchestra si accorda.
Archi, legni, ottoni e percussioni producono un suono che sembra un sospiro.
Prima che una finale abbia inizio accade la stessa cosa, ma alle anime di chi assiste.
Nella pancia dello stadio i giocatori si concentrano, qualcuno si affida alla sua scaramanzia.
Il Mister fa l’ultimo discorso.
E prega.
Sulle tribune si consumano sogni e sigarette.
E preghiere.

C’è chi immagina quello che potrebbe essere, qualcun altro racconta il pezzo di storia che lo ha portato lì. Si esorcizza la paura. Si stringono amicizie eterne, ma lunghe il tempo di una notte, come quelle tra i pazienti nelle corsie degli ospedali.
Per il ragazzo accanto a me, Francesco, sedici anni, è il primo viaggio da solo, la prima trasferta, l’emozione della serata è tutta nei suoi occhi.
«I miei me lo hanno promesso dopo la partita di Sofia; se fosse arrivata la finale, se avessi trovato i soldi, ci sarei stato pure io.
Ho fatto il cameriere in pizzeria per due mesi, ho smesso di uscire. Ora sono qui».
Io quella sera avevo ventitré anni, era la mia prima volta a Londra.
Ci sarei tornato, ma all’epoca non lo sapevo, dopo quella notte pensavo non ci avrei più messo piede.
L’ho odiata come un rimpianto.

Partenza da Genova il 16 maggio, subito dopo aver sentito dagli scogli di Boccadasse dell’anticipo vinto contro la Lazio: «ragazzi è un segno -disse Luca- prima di Berna perdemmo».
Il primo bagno dell’anno come a battezzare il sogno di chiudere un ciclo che, a ripensarci oggi, pare impossibile.
Uno scudetto, quattro finali europee in quattro anni.
A Genova.

In quattro su una Renault5 puntata verso la perfida Albione.
Tre giorni per coprire la distanza tra Genova e Londra.
Pazzi. Vero. Ma quella fatica fu nulla se paragonata a quella del ritorno.
Occhi gonfi di sonno e di occasioni sfumate.
Io e Luca alla guida, Sandro e Paolo passeggeri senza patente.
Sonno a Lione.
Nausee sulla Manica.
In mezzo pasti frugali negli autogrill francesi.
Francesi. Ottocento tipi di formaggio.
Neppure un caffè degno di questo nome.
«Stanno costruendo un tunnel – dice Paolo impugnando la Gazza dalle parti di Calais – magari fosse già aperto» .
Ricordo ogni momento di quel viaggio.
La giornata in giro per Londra. La bandiera Inglese che gli inglesi – per proteggersi dai pirati – comprarono proprio da Genova.
«Le nostre navi spaventavano i pirati – racconta Luca – e così gli inglesi affittarono la bandiera della Repubblica per proteggersi».
Gli inglesi tifavano per noi, ma non lo sapevano.

Ricordo lo strano gemellaggio con i tifosi spagnoli, Catalani!, a chiamarli Spagnoli si incazzano.
La sera saremmo stati nemici, come nel 1989, vero, ma le ragazze di Barcellona sono troppo belle per non innamorarsene.

Ricordo anche le cartoline spedite il giorno dopo, «Saluti e speriamo bene» quando la speranza era evaporata già da una notte.

Man mano che la partita s’avvicina il brusio cala, si riempiono i polmoni, il cuore accelera.
«Seee deser-te son lesstrade, oggi, Doria, giochi tuuuu»

Quando entrano le squadre tutto quello che abbiamo dentro viene fuori, colori e urli si accavallano, per gli spagnoli gli altri siamo noi.

Lo stadio di Wembley per una notte si colora di giallo, rosso, blu, bianco, rosso e nero.
Colori per la festa. Regine sotto i riflettori. L’Europa contesa tra Genova e Catalogna.

Ancora oggi ricordo quella partita come se la avessi appena vissuta.
Il Barcellona con una maglia arancione, la Samp in bianco.
Il fischio di inizio e sigarette che non bastano, gambe che non stanno ferme.
Ansia di chi comprende quanto bella sarebbe la vittoria, paura che conosce solo chi sa quanto forte il dolore della sconfitta che potrebbe essere.
Il destino alle volte è un treno che passa una volta sola. A Genova passò il 20 maggio del 1992.

Negli anni ho rivisto mille volte le immagini vissute sulla pelle di quella notte londinese, come se riguardandole potessero cambiare.

Il pallone di Vialli a pochi centimetri dal palo, l’urlo di gioia strozzato; come il rigore di Grosso a Berlino nel 2006, ma al contrario.
Poi c’è stata la Punizione. Il sipario su un sogno lunghissimo e bello.
«Ma cazzochesfiga!»
Paolo era girato; ha preferito vivere l’epilogo attraverso l’urlo degli spagnoli e nelle nostre facce piuttosto che vederlo sul campo.
Ancora oggi, se glielo chiedi, racconta di non avere mai visto il missile scagliato da Koeman e che si è infilato nell’unico spazio libero, tra la barriera, il palo e la mano protesa di Pagliuca.
Beato lui.
Dopo il fischio dell’arbitro, Mancini gli urla qualcosa in un inglese così cristallino che vale cinque giornate di squalifica internazionale:
«Va a festeggiare con gli spagnoli, gran figl di putt!»
poi si abbandona sul prato.
Piange.
Piangono le ragazze con le sciarpe blucerchiate, piange un signore – e non è il solo – che comprende che quella notte era un regalo unico, un sogno mai sognato.
Piange anche Francesco; io sento gli occhi gonfiarsi, le lacrime che spingono, la bocca farsi amara.
Tra le lacrime applaudiamo gli altri, quelli che quella Coppa l’hanno appena vinta, piangono anche loro, ma di gioia.
E cantano.
E cantiamo.
«È il calcio» Sentenzia Sandro.
«Eaffanculo il calcio», chiosa Luca.

Quella notte fu terribile. Eppure unica. Irripetibile.
Alcuni dicono sia meglio amare e aver perso che non amare mai.
Forse lo stesso principio va applicato ad una notte che – adesso lo so – da tifoso difficilmente vivrò ancora.

Il paradosso è che le lacrime di Mancini sono l’istantanea a cui lo stesso Paolo Mantovani era più legato. L’immagine dell’impresa iniziata dieci anni prima e mancata per una manciata di centimetri.
Quella notte finì anche il calcio nel quale una cenerentola potesse diventare regina, persino quello stadio, il Tempio di Londra, è stato profanato e ricostruito.

Forse Mantovani comprese semplicemente che certe partite è bello anche solo giocarle, anche solo una volta.
Amare e perdere piuttosto che l’oblio di chi non perde perché non ha amato mai.

A chi, negli anni seguenti, gli chiedesse perché – tre le tante immagini di vittorie – nel suo ufficio fosse ostentata proprio quella foto con il Mancio, al centro del campo, braccia attorno alle gambe, in lacrime, rispondeva con un orgoglio tutto suo.
«Perché? Perché quella è la Sampdoria!»