
Preda che caccia preda che caccia preda sullo sfondo della Piazza Dei Miracoli. Direttamente dal Laboratorio, un racconto di Luca Pappalardo.
«Sono certo che sia qui.»
Poi, a bassa voce.
«Qui, cazzo.»
Alle mie imprecazioni risposero un silenzio indecifrabile e lo sfregolio di un accendino.
La notte era fredda, puntellata di stelle che facevano contorno a una luna oscenamente pallida. Bagnava di luce i marmi bianchi del Duomo e lo trasformava in uno spettro gigantesco, troneggiante su tutta Piazza dei Miracoli.
Mi appoggiai con una mano al prato umido di rugiada, e continuai a martellare le pietre lisce della facciata con il fondo di una bottiglia vuota. Ogni colpo si perdeva nella pietra, sordo e smorzato.
«Anche con le altre ci hai messo tanto?»
Mi girai a guardarla. Fumava senza fretta, le braccia nude indifferenti al gelo. Il vestito blu notte le arrivava alle caviglie, e i capelli neri appena sopra le spalle. All’inizio le avevo dato non più di diciotto anni. Due occhi verdi, con pupille così nere da mangiarsi l’iride, lampeggiarono di una furbizia consumata. Diciotto?
«Quanto tempo ho ancora?»
Sorrise, e nel gesto languido dell’ultimo tiro accarezzò il filtro della sigaretta con la punta rossa della lingua. Immaginai la consistenza di quella lingua fra i miei denti, la sua morbidezza contro gli incisivi. Il calore del fiotto di sangue.
«Cinque minuti.»
Mi ero imbucato alla festa per caso, attirato da uno sbrodolio di musica jazz colato da una finestra aperta. Un paio di tentativi al campanello, «certo che conosco Giulio», quindi l’appartamento e i cocktail e poi lei. Lei.
Dopo l’approccio e i primi sorrisi, la domanda con cui aprire i giochi: «Ti piace Piazza dei Miracoli?». Aveva risposto con una smorfia: i turisti, le bancarelle, la Torre pendente. Certo che no. «Di giorno. Di notte è diversa. Nasconde un segreto. Vuoi scoprirlo?». Banale, ma aveva funzionato. Con quelle così funzionava sempre.
Inginocchiato come un penitente, continuavo a percuotere i marmi in cerca del segreto: di quell’unico punto, tre centimetri per tre, nel quale il rumore di un colpo si riverberava per lo spazio circostante secondo un’eco impossibile, trasformandosi in un suono basso, sovrannaturale e gorgogliante.
Era un segreto notturno, e mi apparteneva. Lo custodivo con la gelosia di un padre, e come un padre gli avevo dato un nome: risata del diavolo.
Alla sua incredulità avevo risposto con una proposta: «Scommettiamo. Se vinco, ti offro un caffè». Aveva accettato ridendo, con quelle labbra sottili che non vedevo l’ora di strappare. Ogni volta era bello come la prima.
Un campanile distante suonò l’una. Avevo percorso la facciata due volte, senza risultato e senza capire. Il mio bambino si nascondeva nella roccia.
«Hai perso.»
Mi prese per un braccio, alzandomi. Io già pensavo al pretesto successivo.
«Ho perso. Non sarai troppo cattiva con me, vero?»
Mi guardò, e sorrise. Poi un moto silenzioso iniziò ad agitarle la cassa toracica, e dal silenzio eruttò in un rumore che conoscevo bene: un suono basso, gorgogliante, che si riverberò per lo spazio circostante secondo un’eco impossibile.
Un suono sovrannaturale.