Fuori

Un drammatico evento per rilanciarsi e vedere la vita con nuovi occhi. Direttamente dal Laboratorio di Minuti Contati, un racconto di Salvatore Stefanelli.

 
Il mio mondo è qui tra queste mura, dove vivo solo, abbracciato ai libri e alla tv. Non ho bisogno di altro. Non ho bisogno di nessuno che mi costringa a uscire dal mio appartamento.
Sono le tre, i rumori dalla strada mi svegliano. Come ogni notte l’asfalto pullula di vermi, di polvere bianca, di gambe aperte e imbrattate di sperma, di soldi velenosi. Le sirene non arrivano quasi mai qui, hanno paura di entrare nel quartiere quando i lampioni lasciano troppe ombre cariche di occhi, e non solo. Dopo poco il silenzio sembra ribellarsi a tutti questi frastuoni, ma il silenzio mi spaventa più delle urla.
Questa notte l’aria è irrespirabile, i cani in fondo alla strada si sono svegliati e abbaiano impazziti. I primi scricchiolii nelle mura sono seguiti subito dai secondi e poi infiniti altri. Le mura ondeggiano. Mi alzo. Quasi non mi reggono le gambe. Tutto si muove. Tutto trema.
«Angelillo apri! Dobbiamo scappare! è il terremoto. Forza! Prima che crollano le scale… Angelillo! Strunz! Tu muori. Tu e chella maledetta paura di uscire!»
«Signora Maria, non posso! Non ce la faccio.»
«Vieni. Ti ci porto io giù. Apri ‘sta cazzo di porta!»
La porta è lì che mi guarda, se la ride delle mie paure. Eppure, all’improvviso si spalanca. Cede, e sembra aver paura anch’essa.
La signora Maria ha un viso pallido, le mani livide a forza di battere contro l’anta. Tenta un sorriso, cerca di afferrarmi una mano. «Vieni! Fai presto. Tu muori se resti» dice, ma io non l’ascolto. Vedo le mura tremare all’impazzata. Crollano i soprammobili, i quadri alle pareti. Appaiono le prime crepe e, inarrestabili, si allargano.
«Uh! Maronna! Io non voglio morire! Corri Angelillo, corri!» mi grida lei, mentre scappa giù per le scale, inciampa, maledice, sbatte contro la parete e continua a correre. E io sono ancora qui, a guardare lo stipite della porta inclinarsi un poco da un lato per ritornare indietro subito dopo. È la cosa che si muove di meno: tutto intorno non c’è pace.
Uno stridore più forte degli altri e tutto si calma. Finalmente.
Respiro con affanno. Scopro di essere tutto sudato e, intanto, osservo la mia mano destra stretta alla porta, come se possa confortarmi il suo contatto. Mi guardo indietro: è tutto un disastro. E, mentre penso che dovrò darmi da fare per rimettere tutto a posto, c’è qualcuno che sa quanto la miglior vendetta sia quella che meno si aspetti. Una nuova scossa arriva come una stilettata ai pilastri della palazzina. Cado. Intorno a me crolla di tutto: suppellettili, armadi, lampadari, sedie. Il grosso tavolo del salone piega una gamba e fa l’inchino d’addio. Crollano i muri, il pavimento si squarcia mentre dall’alto cade giù quello del piano di sopra. La polvere mi blocca il respiro. L’architrave sopra la porta è l’unico che resiste. Mi trascino questi pochi centimetri con il cuore in gola, sino a raggiungerlo. Mi fermo lì, tra il mio mondo e quello fuori. In lontananza muore il suono di una campana. I cani hanno smesso di guaire, la strada tace le sue solite voci.
Intorno a me si fa il vuoto. Una oscura nube, pulviscolo di quello che era una casa, nasconde un cielo prima carico di stelle. Abbracciato alle mie gambe, con la testa tra di esse, prego. Come mai in vita mia.
Un’altra scossa, la più forte, e pure l’architrave cede: prima quello al piano superiore, che mi passa accanto come una furia. Poi il mio. Infine, quello del piano di sotto. Mi sento trascinare giù, tra calcinacci che mi urtano ai fianchi e oggetti vari che mi prendono a pugni e calci. Non ho nemmeno la forza di urlare la mia disperazione. Penso ai miei libri: vorrei poterne leggere uno adesso per evadere da questo inferno. Infine c’è silenzio.
Lo scorrere del tempo non ha più senso: ore che sembrano minuti e minuti che appaiono ore, la testa mi duole, e non li conto tra un dormiveglia e l’altro. Quando sento dei nuovi rumori non so quanto tempo è passato. Non riesco ancora a capire se è già giorno. Tra i rumori ascolto il suono delle prime voci. Sento riaffiorare la speranza. Provo a chiamarli ma non riesco ad emettere che atoni lamenti. Scavano. “Fate presto!”. “Non arrivano”. “Stanno arrivando”. “Dove andate? Sono qui!”. I miei pensieri corrono avanti e indietro. Quando, finalmente, rimuovono l’ultimo impedimento sono stordito dalla troppa luce.
«È vivo! È vivo!»
«Forza, amico, che ce l’hai fatta.»
Mi sollevano a braccia. Ho il tempo di guardare indietro e vedere dove ho passato le ultime ore. L’architrave era disteso intorno a me e sopra… Be’, c’era la porta. La osservo meglio: è rivoltata. Sono stato fuori dalla mia casa e sono sopravvissuto. Forse potrò farlo ancora, di uscire… dalla mia prossima casa.