
Direttamente dal Laboratorio di Minuti Contati, un racconto di Dand Elion.
Chiave della felicità
è la saggezza;
non dobbiamo
fare torto agli dei;
le parole superbe
degli uomini arroganti
si scontano con i gravi colpi
del destino e insegnano, in vecchiaia
ad esser saggi.
(Sofocle-Antigone)
«Berenice! BERENICE!»
Tutto sembrava fermo. L’aria era irrespirabile per via della calura d’agosto. Persino gli insetti avevano smesso di impastare la terra di merda e saliva.
La macchia rinsecchita era un tripudio di giallo e di spini – un odore da star male – violento e diretto: Ginestra.
Berenice aveva imparato ad amare le ginestre da piccola, quando a casa della nonna zia Ifigenia ne prendeva sempre un ramo da mettere al centro della tavola, l’estate, quando c’era ancora la nonna. Quando zia Ifigenia era ancora “zia Ifigenia” come la ricordava lei: occhi verdi penetranti, due tette enormi – avrà avuto una coppa F? – e una lunga criniera liscia e nera portata sempre legata in alto.
Dio se era bella zia Ifigenia. Prima.
Prima che l’acido corrompesse i suoi lineamenti, trasformando il suo viso espressivo da attrice teatrale nella maschera di una lugubre morte messicana.
Prima che un pomeriggio di aprile passando per i vicoli del centro la “φύω” passata al secolo come “Flagellatori Ultra Ortodossi”, la bollasse come cagna, abbastanza da darle la caccia, come si farebbe con una volpe, e stanarla per cercare di renderla ciò che non poteva essere.
Prima che questo regime insensato di potere e odio prettamente maschile imponesse alle donne di mangiare la polvere, schiacciando loro di nuovo la testa. Prima del crollo.
L’impero di Antigone affondava le sue radici nella guerra civile, nata dalla ribellione delle donne che covava come il tizzone di Meleagro, silenziosa e viva sotto la cenere. Durante il regno di Edipo, anziano e malato, si era fatta via via più consistente una frangia estrema di violenza e maschilismo. Il coprifuoco era stato istituito affinché un minor numero di donne fossero stuprate, ma di giorno nessuno le poteva difendere dai picchiatori ufficiali della frangia, collusi tanto con la malavita quanto con gli organi di potere. Catenari sadici e senza scrupoli.
Le donne sole – ma anche quelle che avevano la prudenza di uscire accompagnate – potevano essere prese, schiacciate, umiliate e derise perché troppo magre, troppo grasse, troppo vestite o troppo spogliate; un inconsistente incrociarsi di occhi per strada poteva decretare l’insorgere di una violenza, uno stupro di gruppo o persino una uccisione tanto pubblica quanto immotivata.
E i compagni, i fratelli i padri di queste donne, ridotti ad esseri di dubbia mascolinità e senza alcun onore, non trovavano la ragione e il coraggio di difenderle, o provando a loro volta il gusto sadico della condivisione, passavano a traditori, aiutando nell’impresa gli stessi aguzzini.
Atalanta e Ippolita, compagne d’arme e nella vita, guidarono la rivolta.
Radunarono nel silenzio della clandestinità tutte le donne oppresse. Tutte quelle donne la cui natura selvaggia soffriva della clausura forzata. Tutte le donne che non solo non amavano più gli uomini sminuiti nel loro ruolo ma che forse non li stimavano proprio più, dopo aver cercato in loro almeno una sola qualità residua. Tutte le donne che amavano le donne.
Fu guerra civile, sanguinosa e violenta. Le donne lasciarono libera la loro istintualità lupigna. Furono ore di orrore e giorni di raccapriccio. Schioccarono le fruste. Volarono i coltelli. Le più astute, con le corde fecero dei giochi niente male riducendo al silenzio per sempre chi le teneva nel buio.
Le nove code dei gatti fendevano l’aria e i corpi dei prigionieri di questa guerra, finché non rimasero vivi soltanto coloro che avevano dimostrato segni di obbedienza.
La resa veniva impressa con il marchio a fuoco, il vestito degli schiavi era la visibilità del collare, lasciarsi schiacciare come tappeti umani, muti, un privilegio.
Chi osava protestare pagava con la lingua o con la vita.
Molte donne rinunciarono alla propria preda di guerra, decretandone la morte, diffidenti e non più desiderose di avere un uomo nei paraggi.
Mia zia tra loro, si accompagnò con Atalanta stessa, consolandola della perdita dell’amata Ippolita, morta nei tafferugli.
Venne scelta per governare Antigone, fiera nei modi e competente figlia di re, discepola di Saffo, che rinunciò alla sua pietà, ma per igiene chiese di fare un’alta pira sulla quale tutti i riottosi sconfitti di Tebe fossero bruciati.
Se poteste guardare indietro nel tempo notereste una donna, albina e minuta che, in un angolo per strada durante la notte peggiore di lotte, partorisce una testolina, fulva di pelo e con gli occhi di ghiaccio.
La donna ferita a morte non trova che le forze per metterla al mondo, le circonda la testa con la mano insanguinata e le vorrebbe sussurrare dolce qualcosa, ma non riesce: anche avesse ancora il fiato per farlo, le hanno strappato la lingua. Il sangue la strozza, ma Ifigenia la nota mentre corre nel buio, si ferma. La guarda negli occhi. Le sposta il viso con manico della sua frusta. Un rivolo di sangue glielo incornicia.
Un colpo di tosse la scuote.
Il colpo di grazia arriva fulmineo e incontrastato, come un rapace. Ifigenia la finisce col pugnale evitandole di morire piano e con la sola sinistra raccatta il neonato come un gattino. Femmina, decreta: Vivrà.
A questi avvenimenti seguirono tre lustri di pace.
Dove la violenza pubblica e privata venne bandita, pena la morte, dove l’unica prevaricazione fu nella pubblica esposizione del collare, ma al contrario delle donne prima, gli schiavi godevano della possibilità di una posizione sociale ed erano protetti dalla donna che li possedeva.
Il pesce, però, puzza sempre dalla testa e proprio la nostra imperatrice e regina si rivelò essere la causa della nostra sciagura.
L’orribile Emone, mio padre, figlio di Creonte era stato il peggiore dei sadici stupratori. Proprio a causa sua l’armonia fu spezzata. Ex marito di Antigone e capo dei rivoltosi era stato risparmiato, non per amore, come ci era stato fatto credere, ma affinché la sua punizione durasse una vita intera. Evirato e ridicolizzato portava il marchio di Antigone, che soleva riservargli, nell’intimo del loro talamo privato, la stessa cura sadica lui le aveva inflitto, nel silenzio del palazzo e della servitù, per anni.
Antigone era stata costretta da un padrone che non aveva scelto ad ogni sorta di sottomissione ed era quello che si dice un allieva che supera il maestro nella pratica del supplizio.
Emone, pertanto, raccogliendo dapprima resistenza tra gli uomini inermi, poi via via consensi instillando la paura e raccontando il dolore, tramò come un ragno, eludendo la sorveglianza della sua padrona e riuscì ad istituire negli anni e lentamente una associazione clandestina di schiavi, che non si potevano riunire, ma avevano trovato il modo di comunicare.
Così dopo quasi sedici anni avvenne l’impensabile. Un nuovo sovvertimento violento, dove gli schiavi ribellandosi alle loro padrone cercarono di sopraffarle. Dapprima la pace delle case venne meno, persino i bambini si ribellarono alle loro madri, sobillate dai padri schiavi. Poi venne il peggio, in segno di sfida gli uomini coprirono i marchi con dei tatuaggi e strapparono dai colli i loro collari. Venne infine la notte dei lunghi coltelli dove tutte le padrone rischiarono di perdere la vita, le lesbiche vennero sfregiate e l’esistenza della “φύω” fu resa nota a tutti.
Le giovani, come me, vennero costrette alla fuga. Abbandonammo madri e sorelle. Fuggimmo nella macchia inseguite da mute di cani e di uomini muti. Un rastrellamento. Ci raggiunsero. Ci presero quasi tutte.
Siamo rimaste in dodici, le uniche donne libere, su tutta Tebe.
Antigone vede ancora la città dall’alto, la sua testa impalata domina la porta, accanto a quella di Atalanta, comandante delle guardie. Mia zia, muta per la stessa mano che ammutolì mia madre, dopo una fuga lunga mesi è ridotta in schiavitù, sfregiata e ripetutamente stuprata.
Oggi è il nuovo giocattolo della follia di Emone, che adesso è imperatore ostile di una città morta, passata a fil di spada, vuota, dove gli uomini, da soli si stanno distruggendo gli uni con gli altri, in una escalation di insensata violenza.
Tutto è desolazione. Tutto è devastazione.
Il fuoco divora ogni cosa, le ville, un tempo meravigliose, sono nere di abbandono.
Non c’è più acqua potabile.
Gli animali muoiono di fame: nessuno li cura.
I campi soffrono: le piante non hanno più nessuno che le ascolti.
Le poche donne, sottomesse e schiacciate, non hanno più la possibilità di rimettere in circolo l’energia del Cosmo.
Tebe è un cupo cimitero. Un immenso desolato campo, così macchiato di sangue da non avere più nulla di santo. Gli uomini si sfidano in bande, per strada, per il dominio dei quartieri e l’unica festa è per i cani randagi che hanno ogni giorno carcasse di cui nutrirsi.
Noi dodici siamo l’unica speranza di Tebe per rifiorire, o almeno lo eravamo, prima dell’ultimo attacco.
Le squadre della φύω hanno trovato il nostro nascondiglio e solo la metà di noi, ferita è riuscita a salvarsi. Nella fuga ho con me l’arco che fu di Atalanta, ma pochissime frecce.
Ho perso il conto degli uomini che ho ucciso, proprio io che sono stata cresciuta nel rispetto della vita e nella non violenza.. Ma ecco che mentre rievoco tutto il dolore che mi ha portato ad essere oggi “me”, ecco ho sentito il rumore secco di uno scocco, ma le mie mani sono ferme: non è un mio dardo.
La violenza dell’impatto mi spinge nella macchia. Striscio, immobile, sotto ad una ginestra.
«Berenice! BERENICE!»
Tutto sembra fermo. L’aria è irrespirabile per via della calura d’agosto. Persino gli insetti hanno smesso di impastare la terra di merda e saliva: la fecondo io, col mio stesso sangue.
La macchia rinsecchita è un tripudio di giallo e di spini – un odore da star male – violento e diretto. Ginestra.
Ho milioni di sogni. Amo la mia città, ma non la rivedrò più. Non godrò del pomo agrodolce della maturità. Come tutti gli abitanti di Tebe ho peccato di Hybris. Siamo maledetti. Siamo maledetti dentro. Maledetti nel sangue.
I miei occhi si annebbiano. La vista è sempre più offuscata.
Il dardo deve essere intriso nel sangue di Nesso: brucia.
Il mondo svanisce e io non sono più in grado di capire cosa mi stia succedendo: solo la voce di mia zia, nelle mie orecchie.
Per lei il mio ultimo pensiero.
Per l’’unica donna che io abbia mai amato – nel segreto del mio cuore – nelle lunghe sere d’inverno, quando abbracciata al suo corpo anche io, orfana e fulva, ho conosciuto di quali prodezze è capace il cuore di una donna.