
La stanza è fatta di legno nero, chiodi larghi come dita, corde tese lungo le pareti come ragnatele dimenticate. Un lume pende dal soffitto. L’aria è ferma. Il tempo ha smesso di essere il tempo.
La donna versa lacrime di salsedine dagli occhi di cielo.
Siede dritta, mani in grembo, labbra livide. Nessuno le ha detto perché è lì, eppure non fa domande. Ogni tanto guarda verso la porta chiusa, come se potesse sentire oltre. Come se sapesse.
I tre uomini che la osservano sembrano usciti da un’altra era. Uno ha un cappotto militare, rovinato dalla fuliggine. L’altro una camicia stracciata e tatuaggi con strani simboli di epoche mai viste prima, sembrano linguaggi antichissimi o di un futuro prossimo. Il terzo è scalzo, e ogni suo passo fa cigolare il legno come un rimprovero.
«Dove lo hai visto per l’ultima volta?» Voce annaffiata da liquori scadenti, ghigno da bucaniere.
La voce è bassa, scavata dal fumo.
Lei deglutisce, cerca di sistemare le parole dentro la bocca come se volesse riparare qualcosa che si è spezzato dentro di lei.
«Stava caricando la pistola… E poi una sciabola me lo ha portato via.»
«E tu sei qui con noi, viva.»
Lei annuisce.
«Erano delle bestie. Moschetti, arpioni, crani dipinti. Non sembravano veri.»
Abbassa la testa.
«Sembrate uguali a loro.»
Poi l’uomo scalzo si volta, apre la porta che si affaccia su una stanza identica, ma completamente sbagliata. Un lume spento, un tavolaccio crepato. Lui.
Un uomo stremato, vestito con un’uniforme lacera, una cicatrice che gli attraversa la mascella come un addio. Ha le mani lorde di sangue e consumate dalle maree. Le tiene chiuse, come se stessero stringendo un corpo che scivola via.
Anche lui piange.
Lo fanno in modo simile, ma non si sono mai visti.
«Com’era vestita?» chiede il cappotto.
Lui inspira piano.
«Gonna bianca. Una camicia… blu. Aveva un segno sulla spalla, una cicatrice. Era…»
Il tatuato si piega verso di lui.
«Era viva quando l’hai lasciata?»
«Era morta quando l’ho trovata.»
Un sussurro.
Poi: «Avete attaccato prima che potessimo evacuare. Non ho fatto in tempo.»
Nella stanza accanto, la donna sente una fitta nel petto. Qualcosa la scuote dentro.
Forse una vibrazione. Forse un pensiero.
L’uomo e la donna raccontano la stessa storia.
Stessi dettagli.
Stessa città.
Stesso giorno.
Ma in uno lei muore, e nell’altro muore lui.
L’uomo la guarda con occhi neri come scogli, lei sorride. Un’alba nasce tra le sue labbra. Si amano, ma non si sono mai conosciuti davvero. Si desiderano, nel lutto delle loro metà speculari. Vivono e muoiono in quell’universo di possibilità, variabili, mari infestati e universi sventrati.
Quella stanza è confine, crocevia, un universo tutto per loro.
«Tu sei morta nella mia vita.»
«Tu sei scomparso dal mio mondo.»
Eppure sono un errore. Entrambi dicono la verità e una menzogna.
Due colpi risuonano. La polvere da sparo che aleggia nell’aria.
La ciurma brinda. Possono tornare a casa.
La nave lascia il mondo delle possibilità e il mare dei rimpianti.