
All’improvviso ti vedo.
Sei alla guida della vecchia Punto rossa, quella con i sedili grigi su cui una volta, durante una gita in montagna, ho vomitato per il mal d’auto.
Stai svoltando la curva in cima alla strada. Come al solito vai di fretta, hai sempre mille cose da fare. Chissà per quale motivo stai correndo oggi? Forse devi andare a prendere Mattia all’asilo, o hai dimenticato di comprare qualcosa al supermercato.
Mi ricordo com’eri in quel periodo. Sempre di corsa. L ’ufficio in cui lavoravi era un inferno; eri stata così contenta quando era arrivata la lettera con le congratulazioni per essere arrivata prima al concorso, ma già pochi mesi dopo tornavi a casa imbronciata e tesa.
Non era semplice far coincidere il lavoro con la famiglia. Rientravamo tutti a un’ora diversa: tu alle tre del pomeriggio, io all’una, Mattia alle quattro e papà alle sette e mezza.
In quel periodo avevo già manifestato i primi sintomi della mia malattia, ed era stato un duro colpo per tutti.
Vedo la vecchia Punto avvicinarsi. Sei ancora giovane e bella, nonostante i primi segni di affaticamento sul tuo viso. Sei oltre il limite di velocità, ma hai troppa fretta per rallentare. È quando sei a pochi metri da me che mi accorgo che non sei sola.
Accanto a te c’è un uomo. Non lo conosco. È un tuo collega? Non credo. In tutti gli anni che hai passato nella segreteria scolastica, non hai mai stretto amicizie.
A casa ne parlavi spesso con papà: i tuoi colleghi erano dei mostri. Lui ti diceva di non prendere tutto così sul serio, di imparare a lasciarti scivolare le cose addosso. Lui che cosa doveva dire, allora? Doveva sgobbare dieci ore al giorno in officina, avrebbe pagato per avere un part-time nel settore pubblico come il tuo.
Tu dicevi di sì, ma in camera piangevi. Qualche volta venivo da te e ti chiedevo se era per colpa mia. Scuotevi la testa e mi raccontavi una favola per distrarmi, anche se eri triste e stanca e volevi solo dormire.
Mi raccontavi le favole anche sul lettino dell’ospedale, poco prima che un dottore con i baffi bianchi ci dicesse che la mia non era epilessia, ma convulsioni dovute probabilmente a stati d’ansia.
«E per quanto riguarda le cose che vede?» chiedesti.
«Durante gli svenimenti è normale avere un’attività onirica.»
«Ma dottore, lei vede cose che accadono da un’altra parte.»
Il dottore fece spallucce. Vide che eri stressata, attribuì il mio malessere alla tua ansia e disse che avevo bisogno di risposo e tranquillità.
Capisti in fretta che i medici non avrebbero saputo aiutarci.
Ne parlasti con papà, lui insisteva che era colpa della crescita, che sarebbe passato tutto.
Un giorno, durante un attacco, ti vidi. Stavi portando il cappuccino alla vice preside. Ti osservai mentre lo tenevi per i bordi per non bruciarti le dita. Quando ti vide, la vice preside ti chiese qualcosa sulle supplenti. Rispondesti che non eri riuscita a trovare una supplente per la 4°B, lei s’infuriò e ti disse che eri un’incapace. Corresti via, ti rifugiasti in bagno e, visto che avevi ancora in mano il cappuccino, lo gettasti contro al muro. Un po’ di liquido rimbalzò e ti finì sulla gonna. Iniziasti a piangere forte, colpendoti il viso per importi di smettere.
La telefonata da parte della direttrice della mia scuola, quel giorno, fu per te una liberazione. Venisti a prendermi e mi portasti a casa. Quando ti chiesi perché ti eri presa a schiaffi nel bagno, capisti che avresti dovuto cercare una spiegazione alle cose che mi succedevano.
Ti mettesti a consultare psicologi, poi psichiatri, per finire a chiedere aiuto a chiromanti e sensitive. Nessuno seppe dirti perché mi succedevano quelle cose, ma una sensitiva, dopo che le avesti raccontato quello che vedevo, anziché provare a venderti uno dei soliti amuleti ti disse: «Tua figlia ha un dono. Adesso vede soltanto cose che accadono lontano da lei nel presente, ma con il tempo il suo potere potrebbe crescere. Non è un peso semplice da portare: più intense saranno le sue visioni, più forti saranno gli attacchi. Sostienila. Stalle vicino.»
Litigasti con papà, lui disse che non potevate permettervi tutte quelle consulenze, ma tu insistevi.
La tua Punto rossa è sempre più vicina: riesco a distinguere con precisione i tuoi lineamenti e quelli dell’uomo che ti siede accanto. Ha circa la tua età, ha la barba lunga, il viso affilato e il collo magro. È l’esatto opposto di papà, che invece è sbarbato e ha il viso rotondo.
Mi rendo conto troppo tardi che siamo in rotta di collisione. Continui a non vedermi, stai parlando con l’uomo che ti siede accanto, agitando una mano in aria. State litigando?
La distanza tra me e te si accorcia sempre di più. Non riesco a muovermi. Vorrei salire sul marciapiede, ma non ci riesco, i miei piedi sono come incollati alla strada. Vedo il cofano della macchina arrivarmi addosso.
Mi centri in pieno. La Punto rossa mi attraversa senza farmi male, passandomi addosso come vento.
Mi stupisco io stessa di essere incolume, eppure sono consapevole del fatto di non essere veramente qui: con il tempo ho imparato a controllare le mie visioni.
Il rumore dei freni mi fa rabbrividire. Quando riapro gli occhi vedo che ti sei fermata qualche metro più avanti.
Ti vedo mentre scendi, tremando, dall’auto. Scende anche l’uomo che ti accompagna, con una mano sulla nuca. Restate a guardare il cadavere steso sulla strada.
Non hai investito me, ma un cane. Un meticcio di grossa taglia, dal pelo bianco e marrone. Al collo ha un collare rosso con la medaglietta.
Scoppi a piangere. L’uomo resta per qualche istante a guardarti, frastornato, poi ti abbraccia. Ti bacia sulla fronte, accarezzandoti i capelli ricci che avevi allora. Ti dice che non è niente, che andrà tutto bene. Ti sussurra che insieme ricomincerete. Lontano, da un’altra parte.
La prospettiva di un’altra vita ti si schiude davanti. Una vita lontana dai problemi, da un marito che non ti capisce, da un figlio che non ti fa dormire e da un’altra figlia malata che non ti fa neppure risposare.
Non so spiegarmi dove hai conosciuto quell’uomo. Evidentemente hai più segreti di quanti io abbia mai sospettato.
Eppure so che non sceglierai lui. Resterai con papà, crescerai me e Mattia al meglio delle tue possibilità, e riuscirai anche a sorridere di nuovo. Mi aiuterai ad accettarmi per quello che sono, e insieme a te il mio potere crescerà e mi renderà capace di vedere cose lontane nel tempo.
E mentre il dolore delle convulsioni mi si riaffaccia nel petto e tu, l’uomo e la Punto rossa pian piano sparite dalla mia vista, mi viene da dirti che non hai nulla di cui preoccuparti, che custodirò il tuo segreto, che anche quando sarò tornata alla realtà non sarà cambiato niente, perché so che hai rinunciato a una vita più semplice, una vita con l’uomo che amavi, solo per restarmi vicino.
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