
Panem et circenses, prima regola per il controllo del potere. Ma se un Dio dell’Arena si ribellasse? Un racconto di Claudio Tamburrino.
E’ normale che sia agitato, potrebbero essere i miei figli e li devo guidare verso una sconfitta.
Mi guardano e nei loro occhi c’è qualcosa a cui sono abituato: venerazione. Sono cresciuti con i murales e le statue che mi raffigurano, le piazze e le strade a me intitolate.
Non so quando è successo di preciso, ma sono stato io a permettere alla politica di sfruttarmi. Oltretutto per arrivare a questa farsa di regime.
Mi tremano le gambe e non è un buon segno. La chiamano “esibizione”, la tv ne parla come la grande partita per la festa di Tutti, ma lo so che serve a liberarsi di me, a dimostrare che il Partito di Tutti va oltre Totti, che non ha bisogno di vecchi simboli, che io non sono un Dio.
«Capitano, è il momento?»
Sforzo uno di miei sorrisi sbruffoni. Sento le rughe che rischiano di soffocarlo e allora cerco forza nelle parole: «Ricorderete questo giorno perché avete combattuto con gli Dei. O almeno con uno di loro.» E stavolta il ghigno viene naturale. I miei compagni, i miei quasi-figli, non riconoscono l’autoironia e ne traggono forza. Sono pronti a scendere in campo: non avrò più velocità e destrezza, resistenza e corsa, ma sono un simbolo, muscoli e sangue e ossa e ferro, un simulacro senza età forgiato dai calci e dalle leggende.
Il fischio di inizio mi rimbomba nelle orecchie, neanche i timpani sono quelli di una volta. E sono sempre stato così lento?
Inciampo e sudo.
Sei vecchio, arrenditi. Se ne accorgeranno anche loro, finiranno per fischiarti, capiranno che ha ragione questo regime di rottamatori, che sei superato come la democrazia.
Il sudore mi offusca la vista, ho finito finte e trucchetti per fingermi ancora vivo.
«Un Capitano, c’è solo un Capitano» parte il coro dalla Sud e inizia a diffondersi per tutto lo stadio, fin dentro le mie vene. Un lampo di antica grazia e sfioro il pallone lanciandolo d’istinto dove un mio compagno lo arpiona un attimo prima di essere falciato dall’avversario.
Ringrazio la punizione conquistata e prendo la sfera. Mi basta un tiro. Sono dieci anni che non lo faccio, ma è la materia dei miei sogni. Guardo la folla: sono a casa.
Dalla rincorsa al tiro sono in trance, mi riprendo solo quando vedo i compagni corrermi incontro in estasi: mi faccio rincorrere e vado verso gli spalti, cerco la tribuna d’onore dove siede il capo del partito, il Tutto di Tutti. Mi guarda e sorride.
Non ha capito.
Ho sempre esultato con il pollice in bocca, come mi rappresenta anche la statua a Piazza del Popolo. Ma stavolta – lo sguardo fisso su di Lui – distendo il braccio e dal pugno chiuso faccio il pollice verso.
E’ nero il terrore che vedo nei suoi occhi. Sento tremare la terra sotto i piedi come se fosse esplosa una bomba.
Domani sarà tutto archiviato e un giorno qualcuno imbratterà i murales e abbatterà le statue. Ma se una persona in questa folla lo ricorderà, ne sarà valsa la pena. Dio è morto e forse ci ribelleremo.
Quest’oggi riscatto il mio nome, tornando ad essere un uomo.
E subendone le conseguenze.
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