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Un paio di chiavi dimenticate, vita che deraglia per pochi istanti dal percorso prefissato, ma che continua a scorrere, indifferente, determinata, fino alla fine. Finalista nella CENTESIMA edizione di Minuti Contati, un racconto di Sara Tirabassi.

 
Agosto, esterno giorno.
 
Siedo sulla soglia, la mano scivola lungo il dorso di Gattaccio che mangia. Il pelo si stacca, sale nell’aria ferma e scende fino a terra.
Un rumore di campanelli, chiavi, catene mi scuote dal torpore: entra da sinistra un ragazzo con lunghi rasta parzialmente coperti da un berretto di lana color Giamaica. Mi chiedo se sia un miraggio ma il dubbio svanisce non appena Gattaccio inarca la schiena e balza dietro alla colonna del portico. Due fessure scrutano il rasta. Un guizzo nel suo sguardo, un sentore di imbarazzo. Rompo il tabù che imporrebbe di ignorarci reciprocamente e lo fisso mentre cammina verso di me: due naufraghi su una domenica deserta. Si tocca i rasta, si gira verso l’esterno del portico. È davanti a me, fa ancora tre passi, si ferma esitante. Torna indietro e mi porge un volantino: «Posso?»
«Certo.»
Fa per allontanarsi. Vede il gatto. Arretra. Accelera ed esce da destra.
Osservo il volantino: su uno sfondo di fiori colorati campeggia il listino prezzi di un parrucchiere. Sul retro un testo sgraziato, in tutti i sensi, incastonato in un’allegra cornice arancione grida: SPECIALIZZATO IN SITUAZIONI DI EMERGENZA e descrive con dovizia di allusioni il servizio offerto. Barba, capelli, mani e piedi a domicilio. O in luoghi pubblici. Poco tempo, impossibilità di recarsi dal parrucchiere di fiducia. Consulenza per parrucche. Trucco, cerimonie. Il rumore metallico annuncia il ritorno del rasta. Entra da destra. Esce da sinistra. Rifletto su chi un giorno si sveglia ignaro per trascorrere il resto della propria vita in ospedale.
Appoggio il volantino e gratto Gattaccio che si struscia contro il bordo del gradino. Lui si sposta davanti alla ciotola e bercia con cattiveria verso di me. Il vaso dei croccantini sulla cuccia è vuoto. Allungo la mano per toccargli la testa ma si fa piatto come una sogliola ed esce da sinistra con un brusco colpo di coda.
Mi alzo e faccio qualche passo: attraverso la zanzariera guardo sotto le tapparelle, abbassate a metà nel tentativo di tenere fuori il caldo. Le chiavi sulla scrivania, accanto al computer. Sullo schermo Facebook. Gite, concorsi, matrimoni, arrabbiature, recensioni, bufale e vite di ogni genere scorrono a un paio di metri da me. Sul cuscino, la batteria del cellulare si scarica. Bri.
Bri.
Una portiera si chiude lontano.
Bri.
Gattaccio entra da sinistra con un miagolio strozzato. Posa ai miei piedi una lucertola senza coda. Spinge la testa contro la mia mano, ma non ho cibo da dargli in cambio. Pianta un’unghia nel corpo della lucertola e inizia a leccarla meticolosamente. La mangia a partire dal fondo. Ossa così piccole. Gattaccio esce da destra, lasciando le zampe anteriori e la testa. Le zampe fanno ancora un passo. La bocca si apre due, tre volte. Non avevo mai notato prima d’ora le dita sottili, tentacolari. La pelle di mille verdi, le striature di merletto nero. Il dorso giallo che, lucido di saliva, pare accendersi a ogni spasmo.
 
«Anto’, ma ti sei chiuso fuori?»