
Anime diverse, uno stesso destino sul palcoscenico di questa vita comune a tutti. Quarto classificato nella 106° Edizione di Minuti Contati con Piero Schiavo Campo come guest star, un racconto di Raffaele Marra.
Fu Peppino il muto a chiamarla Fiamma, quando sentì le carni arroventarsi di piacere in una notte di agosto là, sul ciglio della collina. Il suo urlo echeggiò scabroso per tutta la strada, zittì i grilli e stuzzicò il desiderio già vivo di chi ancora attendeva. “Fiamma!”, urlò l’uomo, e poi tornò nel suo silenzio eterno.
E Fiamma fu, visto che nessuno conosceva il suo vero nome.
Che fosse bella era evidente. Che fosse brava, lo dicevano in molti, a bassa voce, e con un sorriso malcelato dai baveri tirati in su per nascondere segreti e peccati.
Fiamma veniva da chissà dove, e la sua bellezza, in quel paese di contadini avvezzi alle crepe rudi della terra secca e alle fronde scomposte dei rovi, era desiderio comune che animava i pensieri e agitava le membra.
Abitava nell’ultima casa del paese, là dove gli sguardi impietosi dei benpensanti arrivavano solo di striscio, sul bordo estremo della collina argillosa. E quel luogo di miseria la notte vedeva il lento e silenzioso avvicendarsi di uomini di ogni età, diversi in nome, stazza e veste, ma accomunati dalla stessa espressione inquieta di chi spera di addentare il frutto proibito.
La casa era piccola, come le altre: quattro muri di mattoni, calce bianca e poco altro, un tetto di canne e tegole sporche di muschio, mattoni freddi e consumati sotto i piedi. La sua porta di legno, verde come le sfumature dei suoi occhi, era sempre chiusa.
Sulla maniglia, tuttavia, a volte si poteva scorgere una piccola rosa incastrata tra ferro e legno.
Era il segnale, quella rosa. Quello che tutti, in paese, conoscevano.
La rosa sull’uscio indicava che Fiamma era dentro, sola e disponibile, e che il chiavistello era aperto.
La liturgia perversa di quell’angolo di paese dove Dio non osava neanche guardare prevedeva che l’uomo, sfilata la rosa dalla porta, entrasse liberamente in casa per godere dei piaceri di quel fiore che non aveva spine se non per l’anima. E lì Fiamma prendeva ad ardere, capace di sciogliere ogni contegno come si scioglievano, a volte, i fianchi crespi di quella collina.
Aveva venticinque anni, Fiamma, alle spalle mille storie di miseria che si perdevano puntualmente nell’abbraccio generoso delle sue gambe. Non aveva conosciuto genitori né amici né amori. Solo gente su gente, paesi dopo paesi, fughe, dita puntate e diffidenza, sudore e povertà.
E tanta, troppa solitudine.
Quella notte Don Giovanni guardava la porta di Fiamma, la rosa.
Di peccatori ne aveva confessati, in quegli anni, tutti con occhi contriti e voce bassa, le mani strette per pregare e le ginocchia piegate per chiedere perdono. Ma poi, a guardarli un attimo negli occhi, don Giovanni leggeva sempre, nel loro ricordo, una scintilla di piacere che, immondo, resisteva al pentimento.
Il pensiero, quella notte, aveva mosso i suoi piedi e animato il suo coraggio. Il sacerdote, stretto nel mantello scuro violato appena da pochi fiocchi di neve, raggiunse l’uscio e, sfilata la rosa, spinse la porta.
«Buonasera», lo accolse sorridendo la donna. Quando poi lo riconobbe, il suo sorriso si tramutò all’istante in compiacimento.
«…E hai fatto ‘na buona pensata, stasera», aggiunse maliziosa ravvivando i lunghi capelli neri. Era in piedi, Fiamma, al bordo del letto ancora intatto, una veste pesante verde scuro e uno scialle di lana rossa sulle spalle.
Don Giovanni chiuse la porta e, con la rosa in mano, cercò di governare la tensione.
«Sono venuto per parlarti.»
«Parlarmi?»
L’uomo annuì. Fece un passo in avanti, gli sembrò che il mondo vibrasse per un attimo, quindi si fermò. Attese che passasse il capogiro, poi riprese a parlare.
«È da un po’ di tempo che ti osservo. E so come passi le notti.»
Fiamma lo guardò, forse anch’ella inquieta.
«Conosco tante cose di te, e forse so anche di cosa hai bisogno…», disse uno dei due…
Quella notte, la frana portò giù il lato della collina.
Furono in molti a morire tra le macerie, polvere nella polvere, carne all’argilla.
All’alba, il mondo apparve tagliato in due: da una parte le case salve, le vite scosse, i lamenti e lo spavento, dall’altra le macerie confuse, i corpi immobili, il silenzio.
Tra l’uno e l’altro universo, la casa di Fiamma tagliata in due dalla frana: a monte la parete d’ingresso, lesionata e ricurva come un tronco d’ulivo, a valle tutto il resto, compresi i corpi sporchi della donna e del sacerdote.
Venne il giorno e i superstiti presero a cercare tra le rovine.
Qualcuno posò gli occhi su quell’insolita coppia di corpi senza vita, l’una tra le braccia dell’altro, stretti in un abbraccio eterno, come un’amante esperta con il cliente ben pagante o come una penitente tra le braccia del confessore.
Molti guardarono ma nessuno, quella mattina, osò ipotizzare, né immaginare, né giudicare.
I più, ben presto, tornarono a rovistare sgomenti tra le macerie.
Nessuno, poi, notò che sulla porta di Fiamma, appesa miracolosamente sul ciglio del mondo, la rosa non c’era più.