La collezionista di sogni

All’inizio l’aveva considerato solo un lavoro. Un lavoro odioso, certo, ma l’importante era che gli permettesse di condurre una vita dignitosa.
Tutte le sere indossava dei vestiti eleganti, si truccava, si preparava e si recava a destinazione presso la dimora dei clienti. A volte le chiedevano di recarsi in uffici o negozi, si trattava perlopiù di uomini con mogli all’oscuro di certi incontri.
Il suo lavoro consisteva nel rendere felici le persone. La chiamavano Collezionista di sogni, nome molto poetico, fin troppo. Il suo lavoro era qualcosa di molto più sporco. Il suo lavoro era qualcosa di unico.
Tutti davano una connotazione positiva a quel termine, salvo poi ghettizzare chiunque lo fosse davvero, chiunque non si limitasse a definirsi tale. Lei lo era davvero, quindi poteva dirlo: essere unici faceva proprio schifo. Soprattutto nel suo caso, visto che unica stava per scherzo della natura, frutto dell’unione di due specie diverse che non hanno nulla in comune. Mezza umana, mezza etharu. Per metà di carne, per metà sintetica. Non avrebbe mai smesso di odiare quel dannato pazzo che le aveva donato una vita infernale per uno stupido esperimento.
Quella sua unicità le permetteva di lavorare poche ore a settimana e di mantenere un tenore di vita che molti avrebbero solo potuto sognare. Era assurdo quanto gli uomini fossero disposti a pagare per liberarsi.
Quella sera doveva incontrare un nuovo cliente, un giovane avvocato che era rimasto piuttosto vago riguardo al problema. Sperava di aggiungere qualcosa di nuovo alla propria collezione.
Indossò un abito lungo e una stola voluminosa, in modo da coprire gli innesti meccanici: i clienti nuovi tendevano a spaventarsi.
Si recò nell’ufficio dell’uomo, l’edificio pareva immerso nel silenzio a causa dell’ora tarda. Trovò la porta aperta ed entrò. Alla scrivania era seduto un ometto paffuto che a occhio non doveva superare la trentina. Il suo nervosismo era palese.
«Buonasera» salutò lei. Non porse la mano, non si scostò i capelli dal volto e non si tolse il cappello: era d’obbligo non spaventarlo.
«B-buonasera, s-s-signorina» balbettò lui.
I soldi erano già sul tavolo. Con un gesto rapido, se li infilò nella borsetta, alla rinfusa. «Bene, è pronto?»
«Farà male?» domandò.
«Certo che no» rispose lei. Tutti le facevano quella domanda. «Di cosa si tratta?»
L’uomo abbassò lo sguardo. «Vede, tra un mese mi sposo. La mia segretaria…»
«Questo ce l’ho già» sussurrò lei, scocciata.
«Prego?» domandò lui, confuso.
«Niente, niente, continui.»
«La mia segretaria… mi piace. Io non voglio tradire la mia futura moglie.»
«A dire il vero, se lei non lo volesse io non sarei qui. Mi nutro di desideri, di sogni, non di non voglio.» Scosse la testa, lasciando intravedere più del dovuto.
L’uomo scattò in piedi. «Un’etharu
La Collezionista sbuffò. «Solo per metà.»
«Non voglio che mi rubi i ricordi! Non voglio!» Era sempre più terrorizzato.
«L’essere etharu solo per metà significa che assorbo i desideri e gli istinti, i ricordi non riesco neppure a vederli.» Avrebbe preferito essere completamente etharu. Ah, quanto l’avrebbe voluto. Odiava essere unica.
Il tizio non era convinto del tutto, ma non aveva voglia di perdere troppo tempo. Gli si avvicinò, lo spinse contro il muro – non le fu difficile, pesava solo un’ottantina di chili – e gli toccò la fronte. I desideri così banali erano facili da trovare. Bastarono pochi istanti. Poi lo lasciò e ricadde a terra, svenuto.
Uscì dall’ufficio e tornò a casa.

Si mise al computer, aprì un documento di testo e scrisse: 12 agosto 2756, giovane uomo, desiderio sessuale, desiderio di tradire la propria fidanzata.
Salvò il file, lo mise nell’apposita cartella e sorrise. All’inizio della carriera si era illusa, aveva pensato che potesse essere divertente. Aveva anche trovato un nome d’arte adatto.
Aveva una quantità di doppioni considerevole, quindi c’erano due possibilità: o era una pessima collezionista, oppure erano gli umani a essere simili e prevedibili.