Foto

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«Devi spiegarmi solo una fottutissima cosa» dice il tizio in divisa, scavando con le dita nel naso come uno scolaretto di prima elementare, l’esatto opposto di quello che si vede nei film polizieschi. Non fa paura, solo ribrezzo. Nell’altra mano agita una Canon, la mia. «Cosa ci facevi con le foto del cadavere di tua moglie?»

«Lucia» preciso io, senza aggiungere altro. Anche se potrei.

L’ultima frase che mi ha detto prima di morire è stata: «Allora, idee per il nome?»

La settimana prima, lo sguardo vivo, un sorriso che aspettava solo il mio per esplodere, mi aveva comunicato che saremmo stati genitori. La mia reazione: presi la macchina fotografica. La posizionai bene. Misi il timer. Baciai Lucia, e continuai a farlo anche dopo che il flash era già scattato. Quello fu il momento in cui credetti davvero di poter essere felice. Per sempre, come dicono quelle fiabe Disney del cazzo che ti insegnano troppo presto a sognare.

Si apre la porta. Nella stanza entra un collega. Ha in mano una scatola delle scarpe. La mette sul tavolo.

La apre.

Il poliziotto guarda me, i contenuti della scatola, ancora me. Il collega gli mormora qualcosa all’orecchio, poi se ne va, non senza lanciarmi prima uno sguardo curioso, incerto.

«Seicentoquarantadue foto?» sbotta il poliziotto, ripetendo il numero che gli avrà comunicato il suo collega. Raccoglie delle foto dalla scatola, poi le fa scivolare sul tavolo di plastica verso di me. «Chi è tutta questa gente?»

Una mi sfiora la mano, girando su se stessa. È quella di una vecchia, in ginocchio davanti all’altare della Cattedrale Sant’Agata di Catania.

Un’altra ritrae due ragazzi che si baciano nel parco di Siracusa.

«È la mia collezione,» dico.

«Di cosa?» ribatte lui, giocando con una pallina di moccio.

«Fotografo l’unico momento che conta davvero.»

Lui si acciglia.

Io continuo: «Questa vecchia, l’ho fotografata nel momento in cui credeva in Dio. Questa coppia, nell’attimo in cui hanno creduto di amarsi…»

È bastata una scivolata, la botta alla testa mentre si faceva la doccia, e Lucia non c’è più. Non c’è lei, non c’è la nostra vita, non c’è l’illusione di poter vivere in eterno, felici, cavalcando titoli di coda immaginari, quelli a cui da piccolo i cartoni mi dicevano che avevo diritto. Io, lei, nostro figlio. L’unica cosa che ho sempre voluto.

Sospiro. Poi continuo: «Colleziono i momenti in cui la gente riesce a credere in qualcosa.»

Lui lancia la pallina di moccio nel vuoto, facendo schioccare le dita come facevo una volta i cowboy nella pubblicità dei Marlboro. «E allora perché diavolo ti sei fotografato assieme al corpo senza vita di tua moglie?»

Chiudo gli occhi, sentendomi lontano da tutto, immerso di nuovo in quella scena. Nel momento in cui l’ho vista sdraiata per terra, bella e nuda, scoordinata.

Rivivo le ore passate in silenzio, fissandola.

Tremando.

Il momento in cui mi sono recato in camera mia, ho preso la Canon, e ho messo il timer.

Come avevo fatto una settimana prima, quando mi disse di essere incinta.

E l’ho baciata, di nuovo. E ancora ho continuato a farlo anche dopo lo scatto.

«Quello è il momento in cui ho creduto davvero alla morte,» dico.

Riapro gli occhi.

Lui mi fissa immobile.

«Cosa ne farete della mia collezione?» domando.

Lui incespica sulle parole. «Non so… è tutto da vedere…» Si alza e fa due passi verso la porta, lasciando la scatola sul tavolo, anche se non dovrebbe. Mi lancia un’occhiata, scuote la testa, poi esce dalla stanza.

Avvicino la scatola a me.

Cerco l’unica foto che non c’entra nulla con la collezione, quella mia di pochi mesi, un neonato gioioso.

Ma non è me che vedo nella foto.

«Se fosse stato maschio, l’avremmo chiamato Ivan» borbotto. Poi chiudo un’altra volta gli occhi, pensando a mia moglie. E per la prima volta da quando è morta, riesco a sorridere. «Ma, se fosse stata femmina, l’avremmo chiamata Lucia, come te.»

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