Niente può farmi male

Mi guardo intorno distratta, senza rallentare il ritmo dei passi. Già, pare proprio non esserci nessuno, visto che c’è quello che si definisce tempo da lupi. A quest’ora e con questa pioggia, sembra quasi che io sia l’unica in giro, eccezion fatta per qualche ubriaco davanti ai pochi locali ancora aperti. Il bello di camminare di notte e quando piove a dirotto è proprio poter stare da sola. Insomma, quante volte si può camminare nel centro di Roma senza nessuno in giro? Meglio approfittarne. Nessuno può farmi male.
«Tesoro, cerchi compagnia?» mi chiede una voce strascicata alle mie spalle. Non mi volto neppure. Sorrido, scuoto la testa e continuo a camminare.
«Dai, non fare la timida, ti offriamo qualcosa da bere!»
A giudicare dalla voce, un altro ubriaco. Non lo guardo neppure. Nessuno può farmi male.
«Ehi, lasciatela in pace!» dice qualcun altro, uno con meno alcool in corpo.
Dio, no. Non il buon samaritano, per favore. Gli ubriachi li so gestire, i tipi del genere sono ancora più appiccicosi.
Continuo a non voltarmi, tengo lo sguardo fisso sul terreno e continuo ad avanzare.
Una mano mi tocca il sedere, di sfuggita. Segue qualche risata compiaciuta. Contenti voi, ragazzi.
Poi sento il rumore di qualcosa che si rompe, seguito da un urlo.
«Ehi, che cazzo fai?»
Mi volto. Il bravo ragazzo di turno ha dato un pugno sul naso a uno dei due, anche se sono grossi tre volte lui. Quello ammaccato si lamenta, l’altro gli dà un pugno in pieno stomaco.
Mi sa che questo mi tocca salvarlo.
L’altro si alza e blocca quello sobrio, dando una mano al suo compare.
Mi avvicino ai tre. Quello sano sta per sferrare un pugno al ragazzo che voleva aiutarmi. Gli blocco il polso, il suo pugno è a pochi millimetri dal naso della vittima. Stringo. Sento il rumore e la consistenza delle ossa che si spezzano. Urla. Mollo la presa. L’altro non se l’aspettava, sembra pietrificato. Affondo le dita nel suo bicipite. Carne che si lacera. Ossa che si spezzano. Impreca.
Scappano via.
Il ragazzo che aveva tentato di salvarmi giace a terra. Mi chino, lo prendo in braccio e lo porto fino a una panchina distante pochi metri.
«Scusa» gli dico.
Cerca di riprendere fiato, poi mi chiede «Non devi scusarti, sono io che ti devo ringraziare.»
«L’hai fatto per aiutarmi, è colpa mia» gli spiego. È bello. Due grandi occhi azzurri, una chioma scura e folta e dei lineamenti che nemmeno i pugni sono riusciti a rendere sgradevoli. È anche buono, perché ha cercato di salvarmi.
«Non ti devi scusare, volevo aiutarti.» Alza lo sguardo e mi sorride. «Come ti chiami?»
Stringo i pugni. «Non ha importanza.»
«Mi sono preso un sacco di botte, non ho il diritto di sapere il tuo nome?»
Glielo dirò e se ne andrà. Si è fatto menare per difendermi, ma non appena saprà chi sono se ne andrà. Lo fanno tutti. «Sono CV13
Spalanca gli occhi, poi si dà uno schiaffo sulla fronte. «Cavolo, avrei dovuto capirlo!»
Sono allibita. «Non ti dà fastidio che io…» Lascio in sospeso la frase.
«Che tu sia un cyborg? Certo che no. Però, a saperlo prima, mi sarei evitato un sacco di pugni.»
Sorrido. È la mia giornata fortunata. Abbasso lo sguardo, poi gli chiedo: «Ti va di fare due passi?»
«Volentieri, Tredici. Posso chiamarti così? È più carino.»
«Certo che puoi chiamarmi Tredici.» Sorrido e lo prendo per mano. Sto bene, sono felice. In questo momento, niente potrebbe farmi male.