
Il racconto vincitore della SPECIAL PG EDITION di Minuti Contati. Per la penna di Angelo Frascella, la storia di un amore impossibile, l’ingiustizia di ciò che è socialmente accettabile e di cosa non lo è.
Quel giorno, i bambini del paese erano sovraeccitati e gli adulti indaffaratissimi. Erano giorni di zucchero filato e giostre, bancarelle e processioni. Chi saltellava fra i banchetti, cercando l’oggetto che mai avrebbe pensato di trovare, chi preparava l’abito buono per il passaggio del santo, chi sperava di tirar su una somma sufficiente a giustificare lo sforzo di una vita da ambulante. Poi c’era Nicola che, già da tre giorni prima della fiera, andava in giro per il paese canticchiando: «Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò.»
Era intonato, non c’è che dire, per uno che dalla natura aveva avuto ben pochi doni, ma cantava sempre e solo quella frase, come un mantra. Così, la gente del paese, che già abitualmente tendeva a evitarlo per non rimanere intrappolata in una inconcludente e infinita conversazione sul programma visto la sera prima in televisione, sulla grande pioggia del Febbraio del novantasette o sul prosciutto della Salumeria Meloni, attraversava dall’altra parte, facendo cadere nel vuoto i grandi sorrisi del ragazzo.
Come ogni anno, da sette anni a questa parte, esattamente il secondo giorno della fiera, Nicola uscì di casa, passò in mezzo alle bancarelle e alla folla, senza degnare di uno sguardo neppure i parenti prossimi, raggiunse quella dei fumetti usati e iniziò a esplorarla centimetro per centimetro.
Agostino, l’uomo dei fumetti, si divertiva sempre a prenderlo in giro. Così disse: «Se cerchi Diabolik, ne ho un intero assortimento qui in fondo.»
«No. Diabolik è un fumetto del diavolo. Buttalo, buttalo, buttalo.»
Nicola continuò a scartabellare fra i cumuli di giornaletti.
«Ho capito. Vuoi i fumetti con le donnine nude! Sporcaccione.»
«Argh!» urlò il ragazzo, mettendosi le mani sugli occhi. «Non dirlo più. Non dirlo più. Mai più.»
Agostino rise. Uno degli astanti lo rimproverò: «E lascialo in pace, Ago, e dagli quello che vuole.»
Quello sbuffò, tirò fuori i giornaletti di Topolino che, sapendo dell’abituale venuta di Nicola, aveva nascosto bene, ne sollevò uno in aria, sopra il ragazzo, in modo che potesse vederlo e non arrivarci, e chiese: «Quanti anni hai, Nicolino?»
«Ventotto. Li ho fatti a maggio. Il mese più bello, sai, perché è primavera.»
«E non ti vergogni a leggere ‘ste robe per bambini?»
«Non è per me. No, no. È per mio figlio.»
Agostino scoppiò in una sonora risata «Fortuna che ha preso tutto dalla mamma questo tuo figliolo. Ma fai attenzione a non far arrabbiare troppo il suo papà.»
Nicola lo guardò male, tirò fuori dalla tasca due monete da due Euro e gliele porse: «Ecco. Due soldi.»
«Ne basta una di quelle» disse Agostino. Una cosa era farsi due risate, un’altra approfittarsi di lui.
«No. Due soldi. La canzone dice così» disse Nicola, lasciando le monete sul banchetto e allontanandosi con il giornaletto.
Raggiunta la zona delle giostre si sedette sul muretto e aspettò di vederlo comparire. Passarono i minuti, poi le ore. Infine vide il piccolo Cataldo, quegli occhi grandi e azzurri della madre e l’espressione intelligente di lei. Ne seguì i movimenti con gli occhi fino a quando, trovato il momento giusto, gli si avvicinò, gli fece una carezza sulla testa e gli mise fra le mani il giornaletto. «Per il tuo compleanno.»
Il bambino sorrise: «Grazie, Nicola. Non dovevi.»
«Non chiamarmi per nome. Chiamami papà.»
«Vai via!» L’urlo fece trasalire entrambi. L’uomo muscoloso come Maciste piombò su Nicola lo afferrò per un braccio e iniziò a strattonarlo. «La devi finire con ‘sta storia, Nicolì, che tutto il paese mi ride dietro. Non ti voglio più vedere appresso a mio figlio, lo hai capito? Sennò ti faccio nuovo nuovo di mazzate, hai capito?»
All’inizio ci provò solo il bambino a fermarlo, mentre Nicola, bianco di paura, tremava come una foglia. Poi qualcuno dalla folla si staccò e iniziò a parlare all’energumeno: «Lascialo stare a Nicola, uagliò, che non ci sta con la testa, lo sappiamo tutti. Lasciagli fare i suoi giochi, dai.»
L’uomo mollò la presa, afferrò il bambino, gli strappò il Topolino di mano e lo buttò per terra. Poi trascinò il figlio via con sé.
Nicola rimase tre giorni e tre notti a letto. Non si voleva alzare, né voleva mangiare. Gli anziani genitori erano preoccupati e nemmeno il medico era riuscito a fargli cambiare idea.
Il terzo giorno Rossana bussò alla porta. Era bella Rossana, la più bella del paese e, fino a quando l’energumeno non se l’era sposata, tutti quanti l’avevano corteggiata.
Il papà di Nicola l’accompagnò nella stanza del figlio e li lasciò soli.
Quando la vide il ragazzo parve rianimarsi, si tirò su a sedere e, di nuovo, sorrise.
Rossana si sedette accanto a lui e gli diede una carezza sulla guancia. «Che mi combini, Nicolì? Devi smetterla con questa storia. Vedi che mio marito, se lo fai arrabbiare, ti può fare a pezzetti.»
Lui annuì: «Ma lui non lo sa che noi due ci vogliamo bene. Non lo sa che ci siamo baciati.»
Lei rise: «Ed è meglio che continui a non saperlo.»
«Te lo ricordi quel bacio? Io ci penso sempre.»
«Certo, Nicolì. Era il secondo giorno della fiera. Avevamo dodici anni. Tu mi dicesti: mi baceresti per due soldi e io…» che volevo lo zucchero filato, aggiunse mentalmente «te lo diedi quel bacetto sulle labbra. Ma non è così che si fanno i bambini, Nicolì.»
«Ma certo che si fanno così. Sono grande e la mamma me l’ha detto che la storia della cicogna è finta.»
Lei rise: «Fammi un piacere, Nicolì, alzati, vatti a fare una bella mangiata. Poi torna a passeggiare per il paese, che tutti sentono la tua mancanza.»
«Promesso.»
Rossana si tirò su, giunse sulla soglia della stanza, si voltò e gli mandò un bacio volante.
Nicola lo afferrò al volo e aggiunse: «Io, però, Rossana, se ero tuo marito, non ti davo le botte.»
Una lacrima scese sulla guancia della ragazza, che tirò su col naso e disse: «Lo so, Nicolì. Lo so…»
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