
Faccio in tempo ad accendere l’ultima sigaretta del pacchetto che le maniglie dello studio ruotano verso il basso. La coppia di ante in legno intarsiato si apre quel tanto che basta a Lolo per passare.
«Nulla?»
Lolo fa segno di no.
Lascio cadere la sigaretta sulle piastrelle in marmo rosa e la spengo col tacco dello stivale. «Capisco.» Lo raggiungo e gli stringo una mano dietro il collo. «Ci penso io, compagno. Tu raggiungi Lena e le bambine. Dà loro un bacio da parte dello zio.»
Lolo si fa da parte, le mani che gli tremano.
Aspetto di sentire le ante richiudersi prima di rivolgere l’attenzione al prigioniero, legato a una sedia, occhi gonfi e violacei, labbra spaccate e sanguinanti. Così piccolo, così fragile, così diverso dall’immagine solenne delle statue che lo ritraggono nelle piazze della capitale.
L’uomo piega la bocca in un sorriso. Deve fargli un male cane, ma fa di tutto per non concedermi la soddisfazione di darlo a vedere. «Sai, li riconosco quelli come te.»
A lato del prigioniero, su quella che fino a poche ore prima era la sua scrivania, Lolo ha disposto un po’ di giocattoli. «Quelli come me come?»
Tossisce. Un grumo di sangue gli cola dal labbro. «I leader. Coloro in grado di domare le folle, di far fare loro ciò che meglio ci aggrada.»
«Ci?»
L’uomo ride. «L’idea non ti ha sfiorato? Ogni nuova nazione nasce dal sangue. Ed è dal sangue che emergono quelli come noi.»
Ora sono io a ridere. «Non esiste più nessun noi.» Muovo la punta dell’indice dal mio petto al suo. «Ora esiste soltanto un noi più grande, più giusto, più equo.»
«Equo, dici? Allora perché io sono legato e tu no? Se è così equo, dov’è la giuria che mi deve giudicare?» L’espressione del prigioniero torna seria. «Sentiamo, uomo giusto: cos’eri prima della rivoluzione? Una guardia? Un professore? Un prete?»
Scorro le dita tra i gingilli di Lolo fino a trovare quello giusto. «Nulla di diverso da ciò che sono ancora.» Mi giro, le dita strette attorno al manico di una mannaia. «Soltanto un macellaio.»