Terzo occhio

Giulia afferra la valigia in modo brusco.
«Ti ho dato tutto quello che ho, Tommaso. Ora l’unico che può aiutarti sei tu. Lucia, andiamo. Ora!»
Mia figlia mi guarda con terrore. Credo di averla colpita, ma è tutto così confuso. Il sapore amaro mi riempie la bocca.
Scappa da sua madre senza voltarsi, la porta di casa sbatte forte. Sono partite.
Gocce salate spuntano ai lati dei miei occhi inutili. Ho bisogno di una dose, subito.
Ma appena mi muovo sbatto contro i mobili, inciampo nei tappeti, a fatica raggiungo la mensola su cui c’è la nostra foto.
Afferro l’immagine, l’avvicino al naso per vederle sorridenti, felici, forse per un’ultima volta. La retinite pigmentosa è degenerativa, non perdona.
L’oculista che non ci vede: sarebbe comico, se non fossi sull’orlo della tragedia.
Tengo il sacchetto in un posto nascosto. I cristalli sono lisci, freddi. Ne prendo molti, troppi, senza contarli. Me ne frego, li sistemo sotto alla lingua.
Sapore amaro, come l’assenzio che bevevamo alle feste della Facoltà di Medicina. Allora la parola Fentanyl era solo una fra le tante del testo di farmacologia.
In breve il dolore sbiadisce, le lacrime si fermano, la loro partenza è molto lontana, come se fosse successa a qualcun altro.
Il buio che mi toglie la vista diventa una coperta nera, calda, dove amo sprofondare.
 
Sono seduto su una panchina, emozionato, il sole mi scalda il volto.
Fra le chiacchiere dei ragazzi che escono dalla lezione, riconosco la sua voce. La risata forte e calda, accelerata. Solo lei ride così, da quando è nata.
So la direzione che prenderà: afferro il bastone bianco, mi incammino, orientandomi con i suoni della città.
Lo stesso profumo di Giulia. Il traffico che rallenta, si ferma. La raggiungo al semaforo.
«Lucia.»
Lo dico piano, mettendoci tutto l’amore che posso.
La vibrazione del suo corpo che si gira.
«Papà?» Un silenzio, lungo. «Non può essere. Sei davvero tu?»
 
«La droga?» La domanda arriva a bruciapelo appena ci sediamo al bar. Ho ordinato un caffè nero, mi aiuta a ricordare di non commettere mai più lo stesso errore.
«Sono pulito, Lucia. La comunità mi ha aiutato molto. È stato lungo, ma ne sono uscito.»
«Non ti sei mai fatto sentire. Per me eri morto.» Tono stizzito, sull’orlo delle lacrime.
«Non ero ancora pronto per incontrarti. La mia malattia è incurabile, ma vivo. Mi sono aiutato da solo, proprio come aveva detto lei quando siete partite.»
«Sei diventato cieco.» Intuisco che fissa i miei occhiali da sole, il bastone.
«Non proprio. Ho fondato una società con un ex collega. Si chiama Third eye: sensori sottocutanei, processori neurologici, udito e olfatto potenziati. Non ci vedo, ma sento. Sono la cavia di me stesso, spero che presto potremo aiutare altre persone come me.»
Avverto il suo scetticismo da piccoli segnali di cui nemmeno si accorge. Come si sfrega le mani, il respiro accelerato, odore di disagio.
«E cosa vuoi da me?»
Le lacrime affiorano, proprio come quella sera. Almeno a questo servono, gli occhi.
«Che tu mi dia una seconda possibilità.»
 
(Copertina creata con chatgpt)