
Può il bene esistere senza il male? E può il male liberarsi dal giogo del bene per cambiare e non chiamarsi più “male”? Finalista nella CENTESIMA Edizione di Minuti Contati, un racconto di Roberto Romanelli.
«Aprila, mia cara.» Il Capitano le indicò il sensore in termoplastica vicino alla porta, facendosi da parte. Lei roteò e piantò lo stivale davanti a lui, il tacco sprofondò un paio di centimetri nel sudiciume del vicolo senza compromettere il suo equilibrio. Era sempre stata leggera.
«Non ha senso. È certamente una trappola.»
Il Capitano si lisciò i baffi con la mano artificiale, i micropori rilasciarono un olio di pregio alle essenze di eucalipto e pino.
«Una trappola è tale solo se è inaspettata, mia dolce fa…»
Unghie di dieci centimetri riverberarono la luce dei neon, accarezzando il collo per arrestarsi sulle giugulari dell’uomo. «Posso perdonarti il dolce, ma non osare oltre!»
Il Capitano rise, incurante dei tagli che i rasoi avrebbero potuto procurargli, la ragazza allontanò la mano sorpresa, ma lui le afferrò il polso e, torcendolo, spinse il palmo sulla piastra.
«Fanciulla, è tempo di incontrare il nostro vecchio amico.»
La termoplastica era programmata per riconoscerli entrambi.
«Sei un animale!» La ragazza si massaggiò il polso, facendo scrocchiare le dita e ritraendo le lame.
«Non il peggio che mi sia stato detto.»
La porta scivolò su binari invisibili, liberando un tanfo di marcio e putridume che li stordì per un istante.
I neon esterni erano l’unica fonte luminosa, più che sufficienti per le ottiche amplificatrici dell’occhio sinistro del Capitano. Sollevò il braccio per schermare il naso e si fece inghiottire dal buio.
«Ehi, sei impazzito? Non puoi lasciarmi sola!»
I passi si allontanavano, si fermavano e poi riprendevano. Senza fretta.
L’odore tremendo, il buio. Due volte fece per scappare e due volte tornò davanti a quel buco che inghiottiva la luce.
«Oh, maledetti gli uomini!»
Entrò.
Non aveva un amplificatore di luce come il Capitano, non ne aveva mai avuto bisogno. Scrollò le spalle. Un lungo sospiro. Difficile far passare le vecchie abitudini. Sfiorò gli orecchini e un fascio di luce illuminò la scena.
Urlò e cadde o il contrario. Oppure cadde urlando. Non lo seppe mai.
Si risvegliò nel buio sulle ginocchia del Capitano.
«Siamo ancora dentro?»
«Sì» rispose il Capitano mentre le accarezzava i capelli.
«Per tutte le stelle, perché?»
«Perché io mi ero stufato di combattere una farsa eterna. Perché voi vi eravate stufate di seguirlo e avete convinto gli altri che era ora di accettare la realtà. Di crescere!»
«Ma lui ha…» cominciò a singhiozzare.
«Sì, li ha cercati. Li ha trovati. I miei. I suoi. E li ha torturati.»
«Perché?» riuscì a chiedere tra un singulto e l’altro.
«Per trovarmi. Per ricominciare il gioco. Per darmi un motivo.»
Il capitano si alzò, reggendola tra le braccia, dal ceppo ai cui piedi giaceva la testa del suo vecchio nostromo e si diresse fuori. Lei affondò il viso nel suo petto, per proteggersi dai corpi martoriati delle sue compagne.
Si allontanò da quel magazzino, e la adagiò su un’aiola di erba sintetica. I tatuaggi delle ali sulla sua schiena tremavano ad ogni singhiozzo.
«Adesso rispondimi, Trilly… Sono davvero io, il male?»