
Sollevo un bolo di vetro incandescente dal crogiolo. Lo ruoto sulla marver, devo raffreddare la massa e distribuire il peso. Il vetro si piega, si tende, canta mentre lo soffio, ma alla fine la coppa si affloscia come un fiore appassito.
L’aria è intrisa di fallimento, di calore della fornace, del mio respiro, e della voce che ho in testa: “Il tuo nome sarà sulla bocca di tutta Venezia”. Ziani me lo ha detto con quel suo sorriso oleoso.
Una coppa per il Doge. Per bere nei giorni di festa, che sia di buon auspicio. Meravigliosa, fragile, trasparente come l’acqua della Laguna in primavera.
Ci riprovo. Il bordo si allarga, si fa circolare e curva, perfetto quasi quanto il Cielo. Questa è la volta buona, lo so.
Uso le borselle, le pinze, modello il labbro sottile. Le mie mani non tremano, sono decise. Chiudo gli occhi per un istante e vedo già la coppa finita. Il Doge la solleva in alto, la luce del tramonto filtra attraverso la trasparenza del vetro, rifrangendosi in sfumature d’oro e rosa. La sala è silenziosa, sospesa, e poi esplode in applausi. Per me, Nicolò Bellato, l’uomo che ha reso il vetro immortale.
È tutto perfetto, tutto.
Ed eccoli. Lo schiocco, la crepa.
No.
No!
La coppa si trasforma in una bolla molle che si schianta sulla pietra. Urlo e lancio le pinze contro la parete. Dietro la porta uno scalpiccio reagisce al mio colpo, un’ombra si muove.
«Chi è là?»
Corro a spalancare l’uscio e me lo trovo davanti: Filippo. Magro, sporco di cenere, con le ginocchia sbucciate come un bambino di strada. Tra le mani ha un pezzo di vetro, me lo porge.
«Pensavo… pensavo di aiutarla,» squittisce.
Aiutarmi? Lo prendo per un braccio, gli strappo il vetro di mano. È una coppa, o almeno dovrebbe esserlo. Piegata, deforme. Sbagliata.
«Con questa?» Scaravento la coppa a terra, alzo un piede, la schiaccio. «Ogni errore costa giorni di lavoro. Giorni! Fuori, e non tornare mai più!» Gli lascio andare il braccio e lo spintono. Mi guarda con gli occhi spalancati. Sembra che gli abbia rovesciato addosso acqua gelata, che gli abbia rotto qualcosa che ha dentro.
Si volta, corre.
E non lo rivedo più. Stamattina non si è presentato, e con lui nemmeno gli altri. Il laboratorio è vuoto.
Sul tavolo giace una ciotola di minestra fredda. Da quanto sta lì? Non so, mia moglie me l’ha portata e non l’ho nemmeno notata. Non mangio, non mi serve mangiare.
Resto solo con la fornace. Il fuoco è un animale che non dorme mai. Soffio e ruoto, soffio e ruoto, ma ogni tentativo si spezza. Troppo sottile, troppo spesso, troppo sbilanciato. Sempre troppo qualcosa.
Quando arriva Ziani, l’ultima coppa mancata è ancora lì, sul banco. Non ce l’ho fatta.
Lui si avvicina e stavolta non sorride. Prende in mano il pezzo, lo studia. «È questo che mi consegni?» Lo getta via come fosse sterco.
Abbasso lo sguardo. Il pavimento è pieno di frammenti, tutti perfetti nella loro inutilità.
Alla fine, è tutto il contrario di ciò che volevo.
(Copertina generata con chatgpt)