Basta sognare!

Sapere prima che accada, conoscere sperando di soffrire di meno… Tutto inutile. Vincitore della Terni Live Edition con Daniele Picciuti come guest star, un racconto di Alex Coman.

 
Minigonna, stivali fino alle ginocchia, cosce nude, corsetto a stringere la vita e il seno, a gonfiarlo, labbra viola, capelli sciolti, viso truccato e occhi che urlavano un’unica parola: sesso. Capello a punta, da strega. Camminata a gambe incrociate fino al bordo del letto. Si piega. Guanti fino ai gomiti, le mani che avanzano sulle lenzuola, poi le ginocchia.
Ora i seni si vedono meglio. La gonna copre a malapena il fondoschiena che la strega si porta dietro, come un vagone ondeggiante. Le mani della ragazza arrivano alle ginocchia. «Dolcetto o scherzetto?» chiede, con un dito tra le labbra.
Sdraiato sul letto, lui freme, ovvio che freme; chi non la vorrebbe una strega così? «Credo che assaggerò il dolcetto.» risponde.
La ragazza sorride, abbassa il viso, il vagone dietro è ancora alzato, la gonna lo scopre un po’ a rivelare i glutei che, da quella posizione, ricordano vagamente la forma del cuore. Lei sbottona i jeans, preme con il palmo sull’eccitazione nelle mutande, e poi via anche queste.
«Oh, sì, Elisa.» sussurra senza volerlo. Sorride all’idea di quello che sta per fare la strega. Eccoci. Ci siamo. Si sta abbassando con le labbra schiuse…
 
Apre gli occhi. Merda, un altro sogno. Un altro fottutissimo sogno.
Elisa.
Si alza dal letto, va al bagno, pisciata mattutina obbligatoria. Lavandino: mani, denti, faccia possono aspettare. Torna in camera, apre l’armadio, prende la prima camicia, i jeans di ieri buttati sul comò. Si veste in fretta, va in cucina, beve un sorso di caffè direttamente dalla moka. Cellulare, chiavi di casa, chiavi della macchina. Esce.
Accelera, inchioda, accelera, inchioda. I semafori diventano rossi quando lui ci si avvicina, i vecchietti attraversano le strade, i motorini gli tagliano la strada. Dannazione, muovetevi, perdio! Sono le 8:20, l’ufficio è ancora chiuso, ma lui sa che qualcuno già si trova sul posto di lavoro. Tira fuori il cellulare, chiama: uno squillo, due squilli, tre, quattro. Niente. Elisa non risponde. Chiama a lavoro. Qualcuno risponde: «Pronto.» Voce maschile.
«Massimo, sono Carlo.» Inchioda di nuovo quando una Punto si infila sulla propria corsia.
«Ohi, Carlo, dimmi tutto.»
«Elisa è già arrivata?»
«Doveva stare qui da quasi un’ora, sai, per la riunione di oggi. Ma nulla, non c’è.»
Merda. «Okay, grazie.» Merdamerdamerda. Ci pensa: può dirlo, non può dirlo? Cosa penseranno poi se lo dice? Ma chi se ne frega? Lo dice: «Chiama la polizia. Elisa è in pericolo!»
«Aspetta, cosa?»
«Massimo, chiama la polizia e mandali a casa di Elisa, okay?»
«Carlo, ma cosa..?»
«Non ora. Vado a casa sua sperando di non fare un incidente prima. Tu chiama.» Chiude la chiamata.
Ecco, se poi non è vero? Lui sa che è verissimo invece, Elisa è in pericolo di vita, in un modo o nell’altro. Non può certo spiegarlo alla polizia, non con un fottutissimo sogno erotico. Ma lui sa che, se non interviene, qualcosa a Elisa succederà. Com’è successo a Claudia, Francesca, Marco, Luca… e a suo padre. E ora a Elisa.
 
Aveva otto anni, un lenzuolo sopra a fare da vestito, due buchi per gli occhi. Nemmeno le maniche aveva. Nel cestino di plastica a forma di zucca c’era qualche caramella, niente di che in realtà: sperava in una serata più proficua. Rimaneva una casa da fare, ma neanche i grandi si avvicinavano a quella villa. Gli avevano detto che fosse abitata da una sorta di strega, alcuni avevano affermato che ci vivesse un demone, altri il diavolo in persona, altri un angelo caduto e mandato in castigo qui sulla terra. In ogni caso, chiunque abitasse in quella casa era malvagio, non poteva che essere malvagio. Lui non sapeva che credere. Si fidava degli altri, gli altri sparavano una storia più fantasiosa dell’altra su quella casa. Ma aveva poche caramelle e la casa davanti. Sarebbe bastato attraversare la strada per entrare nel vialetto, poche decine di metri, salire i gradini e suonare alla porta. Tre parole, dolcetto o scherzetto. Avrebbe ritirato il suo premio e poi a casa da suo padre.
La mamma diceva che il padre aveva una cosa chiamata cancro e che tra non molto non sarebbe più stato tra loro. Che sarebbe andato via, a giocare con gli angeli e roba così, ma lui sapeva la verità: suo padre sarebbe morto. Non sapeva quando di preciso, ma sapeva che da un giorno all’altro avrebbe tirato l’ultimo sospiro. Solo qualche altra caramella e poi sarebbe andato a leggere una storia al padre, per fargli vedere come aveva imparato a leggere bene.
Pensava e fissava il vialetto. Da dieci minuti ormai. Finalmente si decise.
Arrivato alla porta, suonò il campanello. Si aprì quasi subito dopo, come se qualcuno lo stesse aspettando. Una signora dai capelli grigi legati in una coda, con una vestaglia rossa e pantofole bianche, lo stava osservando. Un sorriso sulle labbra screpolate, una cesta con le caramelle tra le mani.
Si schiarì la gola e sussurrò: «Dolcetto o scherzetto?»
«Oh, ma che tesoro!» esclamò.
Lui allungò la sua zucca di plastica, lei ci infilò una manciata di caramelle e dolcetti. La osservava e non riusciva a capire perché gli altri le avevano attribuito tutte quelle mostruosità. Non si contenne e chiese: «Ma lei allora non è una strega.»
L’anziana allargò il suo sorriso. «Ma certo che lo sono, tesoro.»
«Ma solo per finta.» spiegò lui. «Perché oggi è halloween.»
Lei rise. Si piegò verso di lui. «Sai mantenere un segreto?» sussurrò.
Il bambino annuì.
«Sì, sono una vera strega.» dichiarò. «E, visto che sei stato l’unico bambino coraggioso a suonare alla mia porta, voglio farti un regalo.»
Ma non poteva essere vero. «Un regalo?»
«Certo. Cosa vorresti, piccolino? Chiedi qualsiasi cosa.»
Forse non era vero, forse sì. Che differenza faceva se ci provava? Al massimo si accontentava delle caramelle da portare al padre. Deglutì. «Be’, io vorrei sapere quando muore la gente.» disse. «Così saprei quanto posso ancora giocare con papà.»
«È un desiderio molto coraggioso per un bambino. Sei sicuro?»
«Sì.» Poi ci ripensò. «Però vorrei saperlo in modo carino, non voglio essere spaventato.»
 
Accelera, inchioda, gira a sinistra, cambia strada, bisogna arrivare da Elisa. Sta tremando. Merda. Era stato a casa sua due volte, in occasione di qualche cena organizzata dalla collega. Entra sulla strada. Qual’era la casa di Elisa? Sì, eccola. Parcheggia. Suona il citofono. Nessuna risposta. Bussa, colpisce, grida: nessuna risposta.
Si sposta alle finestre, cerca di guardare dentro, non vede niente. Ma dov’è la polizia? Massimo alla fine l’ha chiamata? Elisa è là dentro. Deve solo entrare e vedere come sta, fare qualcosa per impedire la morte.
Ancora grida, colpi alle finestre. Niente.
Non subito almeno.
Il viso di Elisa appare di colpo contro il vetro della finestra. Non ha nulla della strega sexy che ha sognato. Il naso schiacciato, gli occhi fuoriusciti dalle orbite, le labbra spalancate in un grido muto. Sotto il mento, un sorriso di sangue che va da una parte all’altra della gola.
Tardi. È arrivato tardi. Elisa è morta. Come tutti. Come suo padre.
Si affloscia a terra, piange: «Basta sognare!»